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L’incanto della poesia narrante

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Monografia poetica bilingue, ideata e tradotta in lingua serba, Poesie / Poezija“, CID editore, Podgorica, 2018.

In principio era il Verbo. E la poesia dove era nascosta? Nel verbo? Nel suono? Nella melodia? Nel silenzio che veniva dopo la prima Parola? Come si è arrivati alla Storia, che ha sconfitto il silenzio, che minacciava di inghiottire l’Uomo tutto paralizzato dalla paura, dopo il primo scoppio del Big Bang esistenziale e linguistico? Cosa facilissima. Bastava solo spalancare occhi e bocca per vincere lo stupore umano e il silenzio universale. Ed è così che è nato il primo suono. Il prossimo era già il ponte verso il canto che ci racconta ancora oggi che dall’emozione e dal silenzio nasce sempre la Storia, ovvero la poesia narrante.

Questo è anche il caso della poesia di Caterina Camporesi, poetessa, psicoterapeuta, condirettrice e redattrice delle riviste La Rocca Poesia e Le Voci delle Luna. Collaboratrice e ideatrice di diversi eventi culturali e premi letterari nazionali, in realtà non fa nient’altro che osservare e indagare quel legame – filigrana tra le emozioni e i pensieri, proprie e altrui. Il che poi è il suo mestiere, riordinare le emozioni facendo uscire il cuore dal silenzio della sofferenza quotidiana, esistenziale, storica, cosmica e prima di tutto umana. La Camporesi lo fa in modo eccezionale già da decenni, con la sua poesia-rimedio, ovvero con i suoi sette libri di poesia (Poesie di una psicologa, Euroforum, Rimini, 1982; Sulla porta del tempo, Edizioni del Leone, Venezia, 1996; Agli strali del silenzio, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, 1999; Duende, Marsilio, Venezia, 2003; Solchi e nodi, Fara Editore, Rimini, 2008; Dove il vero si coagula, Raffaelli, Rimini, 2011; Muove il dove, Raffaelli, Rimini, 2015).

Con le ultime tre raccolte – raccolte poi in Poesie/Poezija, monografia bilingue italiano-serbo – inizia un cammino poetico vincente e affascinante, sia della stessa Camporesi che della sua poesia.

Nelle prime due (Solchi e nodi, Dove il vero si coagula), tutto va nella direzione in cui le risposte riguardanti il senso della poesia e del cammino poetico e umano si accumulano, anche se la brevità dei distici concisi, metaforicamente e semanticamente assai forti, detta tanti silenzi tra un verso e l’altro. È solo una pausa drammatica – quella proprio narrativa, che tacendo parla sempre di più – che la poetessa usa per aiutarci a uscire dal vortice dei dubbi e delle incertezze umani, esistenziali, sociali, intimi, in cui sempre manca la bellezza e la verosimiglianza che invece avvampa i poeti e la poesia.

La poesia, infatti, cancella, radia il buio tenebroso dal suolo terrestre tramite i cuori e le anime. Lo fa anche quando canta narrando cose opprimenti, tristi, angoscianti, proprio “i nodi che ci solcano”. Anzi, li sconfigge con l’incanto e la bellezza del poetare, sia sul piano personale (si scioglie / in gocce d’accidia / l’agonia del giorno) che su quello collettivo (tra un silenzio e l’altro / si fa mondo il girotondo / nelle acque del profondo / capovolgono destini e libertà). Tutto questo è solo un bel preludio per il Grande Scoppio poetico che apre il varco per “scovare il dove / lasciare la parola sordomuta / a riposare / ché al risveglio si ritrovi / potente corale infuocata/ sibillina” (Dove il vero si coagula). Nell’essenza della poesia sta la verità. La Camporesi con le prime due raccolte lancia la sua strada poetica verso il gran finale o verso la sua ultima opera, tutta vera e viva e narrante.

L’ultima raccolta (Muove il dove) è la perla finale della lunga collana delle risposte poetiche, che l’autrice dona sia ai suoi lettori che a se stessa. Si tratta di una cinquantina di pagine dai componimenti brevi, che a volte somigliano a haiku giapponesi, per la loro concentrazione e la semplicità lessicale degli echi retorici la quale pure riflette la sagacia incredibile e la filosofia originale della Camporesi. L’incipit dell’antologia è un aforisma del filosofo Ludwig Wittgenstein (“Impossibile scrivere in maniera / più vera di quanto si è veri”).

Siccome il dialogo e la ricerca, sia del sentimento giusto che della parola adatta e capace di esprimere le vere “misure” dell’animo umano, formano il nucleo della poetica e dell’ottica intima della Camporesi, la sua risposta (Il proprio andare / la meta) rappresenta l’introduzione a un insolito viaggio della parola poetica. Essa racconta e rivela se stessa e il motivo del proprio andare, ovvero della vita umana.

La sua è una ricerca poetica immaginata come l’eterno gioco artistico, che dovrebbe dare valide risposte alle domande: Come nasce la poesia? Qual è il fenomeno più antico, l’emozione o la poesia? È la prima che innesca la seconda o viceversa? In principio era il Verbo, ma secondo la Camporesi esserci è parola / che all’azione spinge / silenzio.

La seconda domanda che la poetessa si pone è: Dove va la poesia? È così che comincia il viaggio della parola poetica, il viaggio con i versi dove essa si tramuta in tante cose, prima nei suoni e nelle luci, in seguito nei tempi e negli eventi. Il muoversi della parola poetica che diventa una poesia prima m(u)ovente e poi narrante è l’invito della poetessa a scoprire i nuovi spazi della poesia e dell’anima umana, rivolto sia a noi che a se stessa. Allo stesso tempo è un incanto eterno che a volte, nella ricerca fatta da lettori e da artisti, somiglia a un circolo vizioso da cui si esce solo seguendo la parola e la traccia magica indicata dalla poetessa (apre al mistero / la porta del cielo // sprigiona scintilla / sulla terra).

In più, la ricerca-viaggio diventa un “cartellone” significativo durante il cammino per la strada “poetica”, che indirizza verso l’essenza della poesia e del sé (sprigiona folgoranti lampi / il buio a lungo sigillato / strinando arcaici ieri / dona al domani sentieri).

Questa è la forza della parola narrante presente nelle poesie della Camporesi, che appunto narrano il processo-collana della creazione artistica, insieme alla crescita interiore di ogni suo lettore. Si cresce muovendosi, emozionandosi, cercando il motivo, il dove, e un magico e felice altrove. L’eterna ricerca umana dei nuovi spazi, delle nuove conoscenze e di un fine “ultimo” o assoluto, che ci renderà eternamente felici e sereni, è artistica e personale, non smetterà proprio mai perché ci porta sempre avanti, verso un futuro che cancella la fine: muove il dove nell’altrove. E tutto ciò che si muove rispecchia la vita. La parola poetica che si muove va ancora oltre, scoprendo l’essenza sia di se stessa che del nostro essere, ovvero la creazione. Proprio la creazione illumina il vero senso della nostra esistenza: fare, ideare, dare la vita, in breve poetare, nonostante tutto e innanzitutto (da abissi di corpomente / si risolleva il pensiero / come luce di fuoco risale / per avvampare il tutto).

Per dire tutta la verità, la poesia della Camporesi “avvampa” o illumina proprio il vero significato del poetare e lo fa in modo semplice, breve e forte, per non dire essenziale. Gianni Criveller ha notato benissimo, nella postfazione di Muove il dove, che “la parola chiave è essenzialità. Non ci sono titoli per le poesie, suddivisioni tematiche o citazioni introduttive”. Una impresa difficilissima, visto che le emozioni e lo slancio poetico a volte vincono la razionalità linguistica di cui sempre deve essere dotato un bravo poeta e scrittore.

Ivo Andric, il premo Nobel serbo, rinomatissimo per il suo stile impeccabile, diceva che quando si scrive, bisogna sempre togliere il superfluo e tornare al testo scritto più di una volta, cancellando sempre qualcosa, finché non si arrivi all’unica parola che esplode dall’espressione, cioè a quella che è la portatrice del significato. È ovvio che la Camporesi ha trovato un modo giusto per bilanciare la sua ricerca poetica e lessicale. I suoi componimenti, pieni di musicalità, abbondano di tantissime assonanze, allitterazioni, insolite metafore e neologismi.

Per finire in bellezza, basta seguire la formula vincente di Caterina Camporesi, lasciando che a parlare per lei siano la sagacia e l’acutezza della sua poesia: “luce / nell’unico lampo / che genera suoni // nell’arsura del vero / nidifica suoni il canto // cova il senso atteso // esserci è parola / che all’azione spinge // silenzio”.

Vesna Andrejević

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