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Vito Benicio Zingales inedito. Gomorra & Steve McQueen

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Dopo quella mia poco encomiabile convinzione, eccomi al punto.
Quella che ho davanti, caro Steve, è la fine della lunga strada. Solo adesso, però, ho realizzato: per tutto il tempo del lungo tratto, la strada non orientava che se stessa all’esercizio parallelo di un frammentarsi di pali. Una vita spesa ad intervalli regolari. E sul rimbalzo di quelle nostre mille sconvenienti intenzioni. Al termine, tra il risalire variabile di una qualche fortuna e il desiderio di un fin troppo generico cambiamento, le città e i convincimenti agli svincoli non hanno saputo fare altro che esaltare una torrida conseguenza: non ho incontrato alcuno tra Ciro, Genny e Malammore. Neppure uno di quelli per cui la tua vita scriveva di vodka e cazzotti. Una riga che racconta millimetri di primavere sciupate, invece, sulla fotografia muta di questi nostri ultimi anni. Una specie di taglio fottuto, dal fegato a quel cazzo di un cuore. Ma sottopelle. Che brucia. Indegno. “Il suono del dolore ha a che fare con la solitudine del burocrate senza timbri”, mi dicevi. Detestandoti, avevi ragione.
Sai, che tu lo rinfacci o te la giochi con la solita minaccia di sputarmi in faccia, ma sul trascorrere di “quel varco” non ho trovato nessuno di quegli eroi sanguinosi. Neppure uno di quegli inneschi agli incendi che mi assicuravi scoppiano tra agosto e il pube delle stronzette al saloon di Ponticelli. Tra una piazzola di sosta e l’altra, solo quel genere di ristori anemici e incapaci. Neppure una di quelle estati a cui alludeva la tua magnanima comprensione quando buffoni e scrittrici burlesque rallegravano il tuo fottuto tavolo da poker. Credimi, se qualcosa ho trovato nel viaggio, era tutto disciplinato su per quell’unico senso di marcia: la guarigione da quel genere di ricordi atrocemente cannibali.

 

Caro Steve, qui, oggi, è l’insecchirsi del desiderio  e ad ogni tentativo che, raramente ormai, la vita osa per aggrapparsi a chissà quale Cristo di un Dio. Non c’è giorno che un fottuto poeta, con il suo carico pirotecnico di orgasmi, non porti via qualcosa da questo “mare ormai a pezzi” e, se la fame per l’oltraggio spinge ancora la nostra imprudenza a commettere cazzate, al poeta, quello vero, puzzolente, disgraziato e bastardo, non resta che sbattersi in campana per non apparire il solito finocchio di un arrapato. Ad ogni passo, tra yoga man salutisti e Islam illuminati, avrai intuito, esaurisce quel giovanile entusiasmo. A moltiplicarsi, invece, è quel  miserabile sbattimento di chi si incensa per raddoppiare muscoli, palle e molari. Ce la giochiamo tra pixel e gridolini niente male. Ho frequentato anch’io sacerdoti e puttane e con tanto di quegli attributi da suppormi lo sceriffo più ammanigliato sulla piazza. In fondo, al più impietoso fallimento dei sensi avrei preferito il veleno del cuore. Ci sarei andato in coma, ma una palla 44 magnum in bocca, per quel cazzo di un colera ne sarebbe valsa la pena, eccome.
Su quest’ultimo tratto di strada, credimi, è sempre stato il ripetersi di quel mescolarsi. Come tra sbirri e gangsta. O tra i ruffiani e le onoranze di Donna Scianel. E a farci le spese il sempre solito coglione a cui piace menarsela proprio in mezzo alla linea di fuoco. In fondo, accoppare un uomo per guadagnarsi da vivere, è l’affare più sporco, ma intrigante al mondo.
Ricordo quando dal rientro da una delle tue sante, onorate sbronze mi urlavi quel cazzo di un fottuto vangelo: “nero su bianco per legittima difesa!”. Avrei dovuto darti retta, forse. E baciarti il culo, per mantenere nel cuore quel beato disordine mentale. Oggi, è l’ossequio al mescolarsi e per restare col culo a galla.
Sulla mia e la tua strada, dici, ancora un ultimo slancio? Tienilo a mente una volta per tutte: il viaggio è compiuto. Al di là della strada il solito presidio di literate stalkers provinciali e oltre questo varco solo ammassi di cazzate sentimentali. Un divagare tra analgesiche prospettive alimentari.

Credimi, più di quanto possano le tue voglie criminali, è un’abbondanza di infrangibili idioti a concludere contratti e pretesti. Netti. Stronzi. Sciatti. E se il viaggio è anche nella sosta, anche io, tra le attese, ho il mio sollazzo in quel mescolarsi. È vero: avrei dovuto osare. “Fermi tutti: questa è una rapina!”. Se l’avessi fatto, chissà, oggi non sarei qui a sbattermi il culo per apparire il Gennaro Savastano dei nostri tempi andati. Anch’io godo, ma per accontentare la vita a giocarsela ancora. In un modo o nell’altro.
Oggi, ho trascorso l’ultima tappa. Non ho mosso il cazzo di un dito. Non avrei potuto. Ho rimesso alla strada la scelta di fottersi da sé. Il viaggio se vanta un prologo complicato è solo per dirimere un epilogo scontato. Avevi ragione: i nuovi erranti, quelli di un rigo sopra il compiacersi dello zero, sanno come afferrare l’enfasi del trionfo  tra le improvvisazioni dei miraggi. Stronzate? La meta è per chi si consola nella prova e io, caro Steve, sono così stanco da bastarmi tra capre e minchioni.
Che poi, a pensarla tutta, ma da quale western si era così presi? Quella che girava intorno alle nostre pretese, era una straordinaria sensazione e, tra Castel Volturno e Secondigliano, noi, compreso il piccolo GiPi, eravamo Gomorra.
Come per l’ultimo emporio che ci siamo fatti. Il Beverin, ricordi? Alla cassa e ai tavoli erano i vecchi di Caivano e il lavoro procurò solo due dollari e cinquanta. Ma fu l’ultimo posto e anche noi ci accorgemmo, revolver in pugno, di essere fottutamente andati. Come quel posto. E il desiderio di credersi diversi. Feroci. Unici. Immortali.
Sul piatto, adesso, solo frasi da conciliare, e come i vecchi del posto, io sono ad avanzo. Indegno e fuori posto.
Certo, alle spalle … traffici, imboscate e quel darsela di lama e cazzotti. Eretici delinquenti? Si, forse. A risolvere la questione, però, non era la consueta erotica promessa, ma la felicità estemporanea tra andito, frigo e l’appuntamento satellitare alla TV. GiPi in mezzo e il paradiso due metri davanti.
È giunta l’ora: tra un po’, la ferrovia annuncerà il 3105 Forcella Scampia. Devo far presto. Ho un’ultima voglia da mordere e un pieno da bruciare alla Camaro. È l’ultimo lavoro. E sul bordo di questa merda di Statale, se gli sbirri non mi scaveranno la fossa, lascerò incise le iniziali dei nostri desideri. Ricordi? È laTexaco Oil. A Brera. Quella cazzo di stazione che sa ancora della tua pelle sputtanata dai dodici a pompa.

“Credi che il dolore sappia amarmi come le canzoni che scrivo?”.

Amico mio: la morte non ha prove da saldare, né parentele a cui affidare pur facili promesse.

La meta è già persa e la mia strada, sulla polvere, non va a ricavo.

Fermi tutti: questa è una rapina!!

Vbz

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