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Comandante Phoenix inedito. COHORTE DECIMA 2320 –OMEGA E CHIMERA

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Pubblichiamo un nuovo racconto inedito tratto da Cohorte decima 2320 – Omega e Chimera opera di fantasia realizzata dallo scrittore Comandante Phoenix.

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Attraversarono un sentiero a tornanti, tra praterie di rosmarino e il sentore maschio del gelsomino. Poi, un oceano di roverelle. Ettari di silenzio e di ginestre spinose. Sulle spalle della coppia, due enormi zaini. Il passo era più che sicuro. Dominavano il terreno sconnesso con la stessa facilità delle belve a caccia. Il più vecchio dei due, sui sessanta, possente, con i capelli tirati all’indietro e lo sguardo penetrante come una lama in affondo, imbracciava un micidiale Barrett M 82. Superata la vasca di raccolta dell’acqua e i resti di vecchie niviere, inerpicandosi tra anfratti e fenditure, giunsero ai piedi del nucleo montuoso sovrastante l’aeroporto Paolo Falco. Da qui, rimanendo alla sinistra del lago Almo, proseguirono sul fondo valle largo e pianeggiante, fino a giungere di fronte al piccolo edificio dell’Osservatorio faunistico. Da qui presero il sentiero di destra che inizia a salire tra il monte Almo ed il Corno Faro. Giunti al passo, infilarono un sentierino sulla sinistra. Ai lati, una ringhiera di corbezzoli e arbusti secchi squarciati dalle fauci degli ultimi incendi. Poche centinaia di metri e, arrampicato uno sperone isolato, presero il bivacco. La loro destinazione, col sole al tramonto, era presa. Intorno il perimetro, alcune avanguardie nodose di pitosforo. Di fronte, a mille metri dal bivacco, la loro montagna. Pizzo della Lupa, la dorsale di fronte, svettava sul caos prativo e un reticolo di torrenti a valle.

Tra il Pizzo della Lupa e il Monte Almo, le piste dell’aeroporto Paolo Falco.

Le informazioni di intelligence risultarono, come sempre, esatte. Quelle equazioni perfette che facevano del loro lavoro una scienza esatta.

Bevvero mezzo litro d’acqua a testa e consumarono un paio di barrette.

Prima di individuare la posizione, la coppia specificò le coordinate del proprio “letto”, il tempo e le rotte approssimative di avvicinamento e partenza, password, frequenze radio e segnali di chiamata per quelle remote ed eventuali forme di supporto al fuoco. Era estetica compiuta e “il sottrarre qualcosa a qualcuno” implicava quel “genere di arte”.

Il “letto” venne preparato di notte, in modo che al mattino tutto sarebbe risultato pronto. Una specie di danza ritualizzata dal frinire delle cicale in amore.

Durante la transizione venne rispettato il silenzio radio. Il sito dell’agguato venne monitorato. Eseguita la ricognizione, cominciarono ad equipaggiare e a ben mascherare la posizione. Tutto avvenne tra le profondità del buio e gran parte del lavoro completato un’ora prima dell’alba. Il silenzio era quello del vento sicano.

Tra le banchise di erba e pietre di Billiemi, nella notte, i due furono erba e pietra.

Prima dell’attività mirante, raccolti dai rispettivi zaini saio e cordoni i due, indossati talari e cocolle sui ghillie suit neri, si inginocchiarono e, all’unisono, levarono gli sguardi al cielo. Il più grande dei due, con tono maestoso e solenne recitò quello che nei loro cuori voleva essere un inno alle intenzioni di chissà quale divinità:

“Preghiamo, Fratello Priore.”

“Il mio cuore batte nel tuo, Maestro Klaus.”

“Monachorum quattuor esse genera manifestum est.

Primum coenobitarum, hoc est monasteriale, militans sub regula vel abbate.

Deinde secundum genus est anachoritarum, id est eremitarum, horum qui non conversationis fervore novicio, sed monasterii probatione diuturna,

qui didicerunt contra diabolum multorum solacio iam docti pugnare,

et bene exstructi fraterna ex acie ad singularem pugnam eremi, securi iam sine consolatione alterius, sola manu vel brachio contra vitia carnis vel cogitationum, Deo auxiliante, pugnare sufficiunt.”

In quella voce, non solo la potenza, ma il ridondare di una tradizione tanto insondabile quanto terribilmente affascinante. Dopo essersi segnati, con l’inizio dell’alba, e smessi i talari, la coppia di “monaci” iniziò a osservare l’area obiettivo. Per evitare i riflessi della lente dell’ottica osservarono la postazione del “nemico” con l’aiuto di un periscopio.

Come falchi, perlustrarono ogni singolo aspetto di quella prateria tramata da ulivi e ginestre.

Nel corso dell’osservazione, vennero determinate le aree di probabile apparizione dei bersagli, valutate la velocità, la direzione del vento e delineati i punti di riferimento e le distanze. Allo stesso tempo fu osservata la completa immobilità e il mascheramento rigoroso.

Lo spotter e l’addetto al fuoco cambiarono di ruolo più di una volta. Tutte le variabili furono sondate e nulla fu concesso al caso. Erano l’esperienza e sul loro tavolo chirurgico ogni gesto esaltava la conseguenza di una perfetta incisione.

Lo spotter cominciò a preparare gli strumenti, a monitorare il terreno e a mantenere le prime comunicazioni radio con “l’unità recupero”.

Dopo l’attività mirante e aperto il fuoco, l’osservatore, nella eventualità del tiro fallito, sarebbe stato in grado di correggere le riprese del suo “primo numero”.

Avrebbero lasciato la posizione solo di notte, e il più impercettibilmente possibile. Tutte le tracce del “letto” sarebbero state eliminate.

Quello che tra i due sembrava essere il capo, posizionata l’imbracatura, diede inizio al processo mirante.

Si distese e dispose l’arma su un supporto puntato nel senso dell’obiettivo. Sistemò la mano libera sotto l’estremità dell’arma, piegando il braccio sotto il grilletto.

Poi, mantenne i gomiti liberi per assumere una posizione del tutto confortevole. Allineò il corpo con l’arma, cercando di rimanere il più basso possibile per limitare il rinculo. I piedi erano ad una distanza comoda e con la parte dei talloni a terra.

Alla fine, stabilì la sua lista mentale e mise in posizione l’arma. Nei suoi occhi esaltava quel misto di acciaio e fuoco che è dei lupi dei Balcani quando l’unica regola è la ferocia con cui declinare bellezza. Ed eccole, le vibrazioni. Sentì il fucile in sintonia con il corpo. Da quell’istante, dal fusto al calcio, la lamiera d’acciaio del fucile era parte del suo sangue. Ne sentiva il primato e le intime ragioni intorno al suo essere stato creato.

La mano libera sostenne l’estremità dell’arma. Disposta la mano vicino al calcio, ripose la punta della mano su esso. Con la mano a pugno comprimendo e rilassando i muscoli, tra dorso e palmo, l’estremità dell’arma si alzò di pochi millimetri. In questo modo, con l’ausilio dello spotter, corresse più volte l’altezza del tiro. Fece due respiri profondi e dispose saldamente l’estremità del calcio nella spalla. La mano di puntamento cominciò a carezzare il grilletto, mentre il resto della mano spinse indietro per adagiare il palmo il più comodamente possibile all’arma. Questi gesti, ripetuti come gli osanna in precedenza levati a chissà quale tremendo Dio, attestavano l’unica tecnica possibile per realizzare l’odierno teatro della morte.

Alle 7.53 di quel mattino, nelle ottiche dello spotter e nell’Ultra MZA standard di LeupoLd & Stevens del cecchino apparvero due presenze in ghillie suit. Immobili. In uno spiazzo declinante da un piccolo pianoro. Immersi, come serpenti, tra le derive di un arido canneto. Uno dei due imbracciava una sorta di lanciamissili. Uno spalleggiabile. Forse, uno stinger. Sui loro “tubi”, in piedi, all’orizzonte, due uomini armati in attività di stalking. Trent’anni. Quaranta, forse. In mimetica, con un buon camouflage. Avrebbero dovuto essere Gregorius al tubo di lancio e Sigfrido alla ricognizione e alle riformulazioni del tiro. Soldati della “Decima”. Indubbiamente, le presenze ostili da neutralizzare.

“Confermo due presenze ostili. Il “letto” nemico è a 1.750 metri. Umidità al 92%. Cinque nodi di vento da sud-sudovest. Cinquecentociquantatre metri di dislivello. Sulla nostra retta, ma di ventidue metri inferiore.”

Il tiratore cominciò a rilassare i muscoli. Il bipede limitò i movimenti della mano di puntamento e del dito sul grilletto. Tenne la testa verticalmente rispetto all’occhio di puntamento e mantenne l’occhio a sette centimetri direttamente dietro al sistema di puntamento. Nel tubo dell’ottica, da quel momento, il campo di visibilità risultò completo. I due erano perfettamente in campo. Manovrò sul Barrett Ranging. Il processore balistico integrato emise un freddo “bip”. Risultò sufficiente inserire la distanza dal bersaglio e ruotare la manopola: i tre sensori interni calcolarono automaticamente la soluzione balistica corretta, compensando la temperatura e le variazioni della pressione atmosferica. Soprattutto, il processore calcolò due fondamentali scostamenti: l’angolo di tiro verso il basso e l’effetto “Coriolis” sulla gravità terrestre relativa alla località del bersaglio.

Furono inseriti nelle torrette i valori di correzione dei due “scostamenti”. In meno di un centesimo di secondo si ebbe l’incrocicchio del reticolo, e quindi l’asse dell’ottica, puntato sul bersaglio e l’asse della canna puntato sul “punto futuro” dove si sarebbe collocato il centro del bersaglio al termine dello spostamento terrestre. Il cecchino dopo aver impostato la correzione per gli effetti Coriolis e Spin Drift alla distanza di tiro riportò l’indice della torretta a zero. Era indispensabile la perfezione. Riformulò, corresse e, alla fine, “pianificò” la “scienza del tiro”.

Nella sua ottica apparve tutto quello che sarebbe servito.

Con infinita calma cercò il proprio punto di mira. Chiuse gli occhi, respirò un paio

di volte e allungò il corpo il più possibile. All’apertura degli occhi, il punto centrale del reticolo dell’ottica era già posizionato nello stesso punto scelto dal cecchino. Il Barrett cominciò ad essere una perfetta estensione del corpo del cecchino. Più volte controllò il punto di mira. Quando il fucile fu allineato con l’obiettivo, il tiratore definì la posizione di puntamento. Soprattutto, la parte dell’anima del nemico da dover prendere.

“Arma sull’obiettivo. Pronto al fuoco.”

Nel tubo dell’ottica nessun’ombra o alcuna mezzaluna. Regolò il parallasse. Tra reticolo, campo di visibilità completo e obiettivo, la mira della figura. In pochi centesimi di secondo fece la sua scelta. Allontanò da sé ogni turbamento emotivo. Da quel momento cessarono quei complessi condizionamenti morali. Per il cecchino il bersaglio non aveva più nulla di umano. Klaus mirò alla parte superiore della sagoma. Decise per quella porzione di carne: gli avrebbe staccato la testa dal collo. L’uomo che imbracciava lo stinger sarebbe stato il primo a cadere. Al suo spotter non avrebbe concesso alcun tempo di reazione. Nessuna cortesia. Due secondi, e sarebbe stato abbattuto. Nel frattempo, di sotto, a meno di mille metri dal bivacco, un aeroplano compiva le operazioni di rullaggio. L’aeromobile 742M24 della Trikeles Airlines procedeva lentamente sulle taxiway. Avrebbe dovuto lasciare la posizione di parcheggio alle otto in punto.

Nel reticolo la distanza tra tiratore e obiettivo: 1.753 mt. Per non sforzare il diaframma e per non far cadere la cassa

toracica cominciò a determinare i cicli respiratori. Inalazione ed esalazione, 4 secondi. Cercava la pausa perfetta.

E la certezza massima di colpire

l’obiettivo.

Pausa, due secondi.

Altro ciclo respiratorio.

Di sotto, l’aeroplano era fermo. In attesa dell’ordine al decollo. Il pilota attivò gli equilibratori di coda verso l’alto.

Quando la griglia di avvistamento e l’immagine dell’obiettivo si trovarono nel piano focale dell’obiettivo, l’occhio del cecchino percepì l’immagine di destinazione e la griglia con la stessa nitidezza.

Lo aveva di fronte. Sullo stesso piano. La pupilla del bersaglio rifletteva nel suo tubo mirante. Alle 7.53, l’uomo armato di lanciamissili puntò la carlinga dell’aereo.

Il tiro doveva possedere la capacità di disabilitare all’istante il bersaglio. L’energia cinetica della palla lo avrebbe messo fuori combattimento.

“Al cranio.”

“Ricevuto. Alza due click. Tre gradi sopra. Bene. Sposta uno in basso. Ho il MOA. 2.5-3 MOA. Assenza di vento. Ci sei dentro. Sia fatta la superiore volontà. Hic Est Sanguis!”

Mirò alla parte più vulnerabile del corpo in termini di balistica delle ferite. Puntò il cranio del bersaglio. Se la palla avesse fatto centro tra midollo allungato e cervelletto avrebbe portato alla morte il bersaglio in pochi decimi di secondo. Le informazioni dello spotter come sempre furono preziose e puntuali. Mirò alla parte superiore del ponte del naso, tra le narici e il labbro superiore. Per neutralizzare l’obiettivo, il punto più vantaggioso. La palla avrebbe distrutto la parte superiore della colonna vertebrale, provocando una grave ferita, incompatibile con la vita. La testa è solo un settimo dell’altezza di una persona: sarebbe stato molto difficile entrarci da una lunga distanza.

Un ultimo ciclo respiratorio. Cinque secondi. A quel punto trattenne il respiro e, in apnea, cominciò la più che sensuale danza col grilletto.

Il dito sparante iniziò a muoversi in discesa. Con prudenza la falange esercitò il suo potere. Superbo, sovrano.

Abbassò il grilletto evitando l’abbattimento della punta. Con gentilezza ed estrema cautela misurò il gesto.

Per non violare la punta, la mano destra coprì correttamente il collo del calcio creando il supporto necessario per permettere all’indice di superare la trazione del grilletto. Come con la tanguera più esigente, tenne l’impugnatura sufficientemente stretta, ma senza sforzi inutili. C’era qualcosa di estremamente sensuale nel movimento. Alla fine, trovò la posizione per il pennello in modo di creare uno spazio tra l’indice e la maniglia. Non ci sarebbero state oscillazioni, né scosse laterali.

Il tiratore, da quel momento, aumentò la pressione sul grilletto in modo uniforme e graduale.

Il dito sparante eseguì la discesa in tre secondi esatti.

Bam!!

Secco. Autorevole. Oligarca.

Tra la riduzione dello slancio di rinculo e l’impatto sulla balistica del proiettile l’ingegnoso compensatore a forma di dardo fece il suo mestiere.

La cerimonia si concluse con l’esplosione di 180 grs di polvere impiegati per spingere le palle monolitiche Cutting edge di 452 grs a più di 900 m/sec calibro. La stessa impiegata per perforare un’armatura di 30 mm di spessore o una parete di 30 centimetri.

Dallo sgancio del cane tutto l’universo sintetizzato nel volo di una palla da 12,7 x 99 mm: il monolite della morte.

Il percussore colpì l’innesco. Il detonante, piazzato tra parete e incudine dell’innesco, a causa dell’urto, provocò una calda fiamma che incuneandosi nel foro di vampa, dopo aver riempito la sede ancora libera dell’innesco, si riversò nella camera della polvere di lancio. La fiamma schizzò al centro della camera e il proiettile, lasciata la sua posizione, cominciò a comprendere, già nella canna, il motivo per cui fu chiamato alla vita…

Il terreno, di sotto, sembrò tremare, ma la spalla non accusò il colpo.

Sulla volata, il freno di bocca a due fori rettangolari di grandi dimensioni ridusse lo sforzo di rinculo.

Subito dopo il lancio, la velocità del proiettile fu pari alla somma di due quantità: la parte dovuta al lancio e quella dovuta alla velocità di rotazione della Terra nella località di lancio. Durante il volo del proiettile, Gregorius e Sigfrido, malgrado l’immobilità nel loro letto operativo, continuarono a ruotare attorno all’asse terrestre.

Nel momento in cui la pallottola lasciò la canna ed entrò nel sistema tridimensionale dell’atmosfera iniziò a disegnare una parabola verso il bersaglio che, rimasto ancorato alla superficie terrestre, fu soggetto allo spostamento nel senso della rotazione della stessa. Il cecchino aveva calcolato lo spostamento del punto d’impatto a destra del bersaglio e lo Spin Drift: 18,9 cm di bersaglio che si è spostato a sinistra rispetto al punto di impatto per l’effetto Coriolis, aggiunti anche i 35 cm dello scostamento della pallottola verso destra per l’effetto giroscopico.

Dopo il tiro, indipendentemente dalla compiutezza del primo colpo, il cecchino spostò lo sguardo sul secondo bersaglio prima che l’elemento di mira lo raggiungesse. Lo fece in modo riflessivo, usando la memoria cinestetica muscolare. Con ferocia e regale autorità.

Durante lo sparo, la canna dell’M 82 si ritirò di circa 25 mm sotto l’effetto dell’esplosione della polvere della cartuccia sparata. L’esplosione spinse indietro la culatta mobile, provocando l’espulsione del bossolo usato, quindi l’estrazione di una nuova munizione dal caricatore. Una volta trasferito il rinculo all’otturatore, la canna tornò nella posizione iniziale e anche la culatta venne riportata nella sua posizione iniziale grazie all’imponente molla posta nel calcio. Un nuovo monolite, a quel punto, tensionando la molla del percussore, passò nella camera del fucile. L’arma era quindi pronta per sparare di nuovo. E disabilitare il secondo bersaglio.

Quando il proiettile raggiunse la bocca della canna, il cecchino mirò al plesso solare della seconda presenza ostile. Un solo colpo nei reni avrebbe portato a shock, e poi a morte, il secondo obiettivo.

Dopo quasi tre secondi dal primo dei due spari, la palla da .50 giunse a destinazione. Il colpo non fu perfetto. La deviazione dal punto di mira fu di circa 30 cm.

Il proiettile raggiunse il collo del primo bersaglio. La decapitazione fu netta e brutale. Gregorius restò in piedi senza cranio, sbracciandosi per alcuni secondi. Alla fine, cadde ai piedi del proprio “letto” di battaglia. Dopo tre secondi il destino cercò l’altro elemento da coniugare all’infinito della fine. Lo spotter accusò un colpo bestiale ai reni. La palla tranciò fegato e intestini. Cessò di essere compatibile con la vita dopo trenta secondi.

“Bersagli a terra. L’unità recupero può intervenire.”

Poi, rivolgendosi allo Spotter.

“Qui, abbiamo finito. Michele: avvisa i Priori: a mezzanotte la Colonna al Tempio”.

Alle 8.10, con alcuni minuti di ritardo, il 742M24 della Trikeles Airlines decollò dalla pista dell’aeroporto Paolo Falco.

L'”Omega” viaggiava in sicurezza verso la sua disperata, ma vera verità.

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