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Michele Orti Manara anteprima. Cose da fare per farsi male

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Il segreto per recitare il dolore: “Ecco il trucco: rievocare le cose che ti hanno fatto del male. Ecco perché le mie facce allo specchio sembravano false, e quelle degli attori no”.

Riflessioni sul male: “Ma il male, avrei scoperto poi, aveva un vantaggio rispetto alla morte: lo si poteva fermare, se ne poteva parlare per provare a disinnescarlo”.

Pensieri su povertà, successo ed autostima: “Forse la povertà è una cosa di cui sei fiero solo se hai abbastanza fiducia in te da essere sicuro che te la lascerai alle spalle”.

Dal 19 Gennaio è in libreria Cose da fare per farsi del male, l’ultimo libro di Michele Orti Manara (Giulio Perrone Editore 2024, pp. 150, € 16,00).

Michele Orti Manara, scrittore veronese, ha già all’attivo la raccolta Il vizio di smettere (Racconti Edizioni, 2018), il romanzo Consolazione (Rizzoli, 2022) e il racconto L’odio migliore (Tetra, 2023). Altri suoi racconti sono stati pubblicati nelle antologie Hotel Lagoverde (Liberaria, 2021, a cura di Gianluigi Bodi) e Club Silencio (Arcoiris, 2022, a cura di Emanuela Cocco), così come in Splendere ai margini (Oligo, 2023, a cura di Andrea Temporelli).

I personaggi dei racconti di Michele Orti Manara sono ricchi e vari, ciascuno con un segreto straordinario, una fragilità sottolineata, un desiderio soppresso e una sua morale. La realtà è permeata da traumi, cicatrici e autoinganni, con ambienti sfumati, appena percettibili, che circondano le vite narrate. Le storie ci immergono nella psiche di individui comuni e ci mettono in contatto con i loro drammi e loro incongruenze.

Troviamo storie di vita di tutti i giorni: vendette tra bambini, un regista che fa recitare la sua giovane figlia, una babysitter con un segreto e un dubbio che si insinua: “Quello che tieni nascosto prima o poi ti avvelena”.

E poi troviamo la filosofia di vita di uno svuota soffitte: “Il problema, con noi roditori, è che in caso di bisogno non ci facciamo scrupoli a divorare i nostri simili”.

Sono racconti di un’umanità viva e disperata che trova sempre un modo di adattarsi e sopravvivere.

Carlo Tortarolo

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Resto solo, con l’immondizia che mi arriva alle caviglie, un mal di testa sempre più ostinato, e circa venti minuti per tornare ad assomigliare a un essere umano – ovvero: domare il panico far scendere la sbronza lavarmi vestirmi – e poi guidare fino a casa di Eleonora.

Di tutto quello che succederà dopo non mi posso occupare, non ho né l’energia né il tempo né la lucidità necessari, posso solo spezzettare l’adesso in frammenti da gestire uno alla volta.

Lavare i denti. Fare la doccia.

Pescare vestiti puliti e decenti dall’armadio.

Lavare i denti, di nuovo.

Asciugarsi i capelli e pettinarsi.

Decidere se farsi la barba o no – no, troppo poco tempo.

Quando salgo in macchina mi avanzano quattordici minuti per un percorso che ne richiede meno di dieci.

Mi posso rilassare, solo che se mi rilasso troppo, come succede a ogni semaforo, rischio di addormentarmi sul volante.

Prendo dalla tasca la bustina che mi ha lasciato Franz. Non so neanche cosa sia, né saperlo mi aiuterebbe, visto che non ho alcuna esperienza in merito.

Ma se non faccio niente rischio di cadere con la faccia nel piatto del servizio buono della madre di Eleonora. «Fanculo» dico al mio riflesso nello specchietto retrovisore. A qualche semaforo dall’arrivo avvicino la bustina aperta al naso e inspiro. La nebbiolina in cui ero immerso si dirada di colpo, e con lei tutte le mie preoccupazioni. Non c’è nulla di davvero complicato, a ben vedere. Pestando sui pedali brucio un paio di semafori, guadagno tempo, sono in perfetto orario. Uscire indenne da quello che mi aspetta è solo una questione di numeri e pianificazione.

Numeri, solo numeri.

Otto le ore alla partenza del treno – abbastanza per rimettere in ordine casa.

Sette i minuti al pranzo.

Sei le volte che mi passo la mano tra i capelli per pettinarmi.

Cinque le mentine di fila che mastico.

Quattro le volte che mi soffio il naso, controllando che la polverina di Franz non abbia lasciato tracce.

Tre gli schiaffetti che mi do in faccia, due le domande che mi faccio (Se Eleonora è cambiata, se ne sarà accorto anche suo padre? E quando tornerò dalla naja, quanto la troverò cambiata io?), uno è il trillo del campanello che suono, e poi aspetto.

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