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David Joy anteprima. Quelli che pensavamo di conoscere

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L’allestimento di un pick up nell’America profonda: “Era una bandiera americana con al centro una croce in mezzo a due fucili d’assalto, con le parole DIO, ARMI, TRUMP scritte in alto e in basso”.

IL Klux Klux Klan moderno: «No, figliolo, io non sono un vigliacco. Ma sono un uomo con delle priorità. E come le ho detto sul portico l’altra sera: noi ci siamo lasciati alle spalle i tempi in cui si sfilava per le strade come una mandria di bestie. Abbiamo scambiato le tuniche con giacca e cravatta. Questo è ciò che il mondo vede».

Le ansie di una ragazza nera: “L’albero con le radici più profonde in questo paese è un albero di supremazia bianca. E il punto è che non devi necessariamente essere tra quelli che hanno piantato l’albero o tra quelli che lo innaffiano e lo potano per beneficiare direttamente dell’ombra che fornisce”.

Lo smarrimento di un bianco: «Io vengo dal nulla. Vengo dallo stesso posto da cui vieni tu. E mi vieni a parlare di potere e privilegi. Tutto quello che ho me lo sono guadagnato. Nessuno mi ha mai regalato niente. E perciò, che io sia dannato se rimango a guardare qualcuno che mente sulle mie origini solo per portarmele via».

Torna in libreria David Joy con il suo ultimo libro Quelli che pensavamo di conoscere (Jimenez 2024, pp. 368, € 18, con traduzione di Gianluca Testani).

David Joy è autore di romanzi e racconti, collaboratore di riviste quali Time e New York Times Magazine, con il suo romanzo Queste montagne bruciano (Jimenez, 2022), ha vinto il prestigioso Dashiell Hammett Prize, che annualmente premia il migliore romanzo crime di Stati Uniti e Canada. È autore anche di Where All Light Tends to Go (Dove tende la luce, Jimenez 2023).

Toya Gardner, giovane artista nera di Atlanta, torna nelle montagne della Carolina del Nord per indagare sulla storia della sua famiglia e completare la sua tesi di laurea. Ma quando scopre un monumento confederato nel cuore della città, scoppia una reazione dentro di lei. Nel frattempo, la polizia locale trova un membro del Ku Klux Klan dormiente in una station wagon, portando alla luce un taccuino con nomi di autorità locali, minacciando di scatenare il caos nelle montagne.

Con due crimini scioccanti che dividono la contea, lo sceriffo Coggins e la comunità affrontano segreti antichi e oscuri.

Quelli che pensavamo di conoscere è una rivelazione dell’oscurità nascosta della nazione, che esplora cosa accade quando le persone più familiari si trasformano in mostri e quando le convinzioni di una vita intera vengono messe in discussione.

Emerge l’inquietudine di un suprematista: «Se non ci aggrappiamo alla storia, tra non molto non avremo più una gamba per stare in piedi».

Il libro di Joy è veramente toccante perché affronta il tema della memoria, della schiavitù, del razzismo e dello sforzo di gettare un ponte per superare la distanza tra bianchi e neri.

E leggendo il libro viene da chiedersi se la ricetta migliore per superare e sconfiggere il Male sia quello di rievocarlo sempre per mantenerne viva la memoria oppure dimenticarlo e farlo seppellire dalla polvere del tempo.

Carlo Tortarolo

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Impiegarono tutta la notte per scavare le tombe. Erano sette in totale, ognuna profonda tra un metro e mezzo e due metri, sterrate da una dozzina di paia di mani. Alcuni scavatori avevano portato dei guanti e li condividevano a turno con chi non li aveva, per evitare di rompersi le mani. Alla fine, le mani bruciavano lo stesso ed erano piene di vesciche. Le dita facevano male a stenderle. Le schiene erano piegate e storte come l’alloro.

Era piena estate, ma sulla montagna l’aria era fresca. Ogni volta che si staccavano dalle fosse per darsi il cambio e riposare, il sudore raffreddava i loro corpi, ed erano contenti di quella sensazione perché il lavoro li aveva quasi incendiati. Le cavallette gemevano sugli alberi e quel suono smorzava il rumore delle pale che raschiavano la terra e dei respiri affannosi di coloro che spingevano le vanghe più a fondo.

Intorno a mezzanotte, la polizia del campus fece il giro del parcheggio, ma gli scavatori si nascosero e rimasero presto soli. La terra si accumulava in cima alle tombe e, una volta terminato lo scavo, gli scavatori facevano la spola con i pick-up per trasportare secchi pieni di sassi di fiume.

La giovane donna che aveva progettato tutto questo si occupò da sola dell’ultima parte del lavoro. Aveva dipinto di bianco i sassi del fiume e con quelli formò lentamente delle lettere sui mucchi di terra in cima a ogni tomba. Si prese tutto il tempo necessario per questo procedimento, come fosse una sorta di meditazione.

Tenendo un sasso con tutte e due le mani, lo rigirava piano finché non sembrava mostrarle il suo posto, e quando l’ultima pietra fu incastonata, si formò una parola. Anche nel bagliore blu riusciva a leggere ciò che era scritto e, dopo avere finito, si distese sull’erba a osservare gli ultimi puntini di stelle che si affievolivano e si spegnevano mentre la prima luce imbiancava il cielo.

All’inizio aveva pensato di stendere dei teli neri sul terreno per segnalare delle fosse aperte. Ma adesso che il lavoro era terminato e il corpo le doleva tutto, era contenta di avere preso la strada più dura. Questo faceva parte della storia e ora lei ne conosceva intimamente i dettagli. Si dondolò tenendo le braccia attorno alle ginocchia. La terra rossa era incrostata sulle gambe della sua salopette. Sentiva il fango secco come una maschera di carbone dove si era asciugata il sudore con il dorso delle mani. Sorrise e chiuse lentamente gli occhi, soddisfatta del lavoro che avevano fatto.

Quando i primi uccelli iniziarono a cantare, le persone che l’avevano aiutata cominciarono ad andarsene. Erano tutti bianchi tranne lei; qualcuno le strinse la mano, qualcun altro l’abbracciò. Un uomo giovane, Brad Roberts, fu l’ultimo ad andarsene. Si era appena laureato e per l’intera estate le aveva dato un grande aiuto per tutto ciò che stava facendo. Nei due mesi passati avevano trascorso del tempo insieme quasi ogni giorno. Le si avvicinò e si mise al suo fianco. «È potente» disse, posandole delicatamente una mano sul braccio. «Davvero, Toya». Le sue parole la riempirono di orgoglio. Rimasta sola, dopo che lui se ne fu andato, tirò fuori dalla tasca posteriore un foglio di carta ripiegato. Aprì il foglio, su cui aveva stampato in biblioteca una fotografia in bianco e nero.

Nella fotografia, diciannove tra uomini e donne erano radunati davanti a una chiesa. Quasi tutti gli uomini avevano i baffi e le donne portavano il cappello, e ognuno indossava il vestito della domenica. Il suo trisnonno si trovava in seconda fila, con le mani in tasca, cosa che si intuiva dal modo in cui la giacca era piegata sulla vita dei pantaloni. Era alto e magro, con una fronte bassa che gli metteva in ombra gli occhi, di carnagione chiara rispetto alla moglie che gli stava accanto. La sua trisnonna aveva uno scialle bianco fatto a maglia avvolto sulle spalle e un cappello nero a tesa larga appoggiato sulla testa. Nel viso della donna, la ragazza rivedeva sua madre, nei tratti che si erano portati dietro e che erano ancora in viaggio.

Mentre era intenta a studiare i volti della fotografia, le facce che le dicevano da chi e da dove era venuta, non poteva fare a meno di sentire che la stavano osservando, con i loro sguardi vuoti che arrivavano da qualche parte dentro di lei. Era come se in fondo al suo cuore ci fosse un armadio e quell’immagine, unita all’odore della terra, avesse in qualche modo aperto una porta che non sapeva fosse chiusa.

Piegò la fotografia e la rimise in tasca, poi attraversò il cortile fino a un marciapiede lungo la strada. Lì, tempo prima, era stata posta una piccola targa in bronzo per dedicare il terreno, ed era stata proprio quella targa a portare a tutto questo. Nel corso dell’estate, si era fermata in quel punto decine di volte a leggere quello che c’era scritto, fino a memorizzarlo.

IN QUESTO LUOGO, NEL 1892, UNDICI EX SCHIAVI FONDARONO LA CULLOWHEE AFRICANMETHODIST EPISCOPAL ZION CHURCH. LA CONGREGAZIONE, LA CHIESA E IL CIMITERO FURONO TRASFERITI NEL NOVEMBRE DEL 1929 PER FARE SPAZIO ALLA COSTRUZIONE DELLA ROBERTSON HALL.

La targa, ovviamente, non raccontava tutta la storia. In realtà, 86 corpi e un braccio amputato furono riesumati e riseppelliti. Quando aveva chiesto a sua nonna come fossero andate le cose, la nonna le aveva risposto che da bambina, quando avevano dissotterrato i cadaveri, le avevano detto che i capelli dei morti avevano continuato a crescere, un dettaglio macabro a cui lei non sapeva se credere o se liquidarlo come una storia raccapricciante inventata per spaventare i bambini. Ripensandoci, la nonna credeva che quasi sicuramente era vera. Le tremava la voce mentre lo diceva.

Per molti versi, pensava la giovane donna, il dolore era stato tramandato da una generazione all’altra, e questo è ciò che tante persone non sono mai riuscite a capire, a meno che non fosse storia, a meno che questa non fosse la loro storia. Per alcuni gruppi, in America, il trauma era una sorta di eredità.

La giovane donna volse lo sguardo dalla targa all’edificio di tre piani che si ergeva al posto della chiesa; i muri di mattoni rossi prendevano una colorazione più calda man mano che i raggi del sole li raggiungevano. Il cortile e le tombe erano ancora all’ombra di un’alta siepe di pino. Camminò con le mani strette al petto per dare un’ultima occhiata prima di andare via. Ora i sassi erano più brillanti e lei, a bassa voce, lesse quello che dicevano.

In principio, c’era solo quella parola.

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