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Valentina Mira inedita. Glow up

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Dopo aver festeggiato i 20 anni di attività di Satisfiction insieme a scrittori come Enrico Remmert, Stephen King, Vitaliano Trevisan, Raul Montanari ed Enrique Vila Matas, in occasione dei 22 annni della rivista pubblichiamo i racconti di autori che da anni contribuiscono a creare Satisfiction.

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Sto finendo quella che sarà la centesima presentazione del mio libro. Gratis, perché le presentazioni funzionano così, in Italia. So che in Francia, per esempio, ti pagano, o comunque c’è una cassa per i cosiddetti artisti. Riguarda scrittori, ma anche fotografi. Insomma, chiunque non abbia delle entrate fisse per via della peculiarità del suo lavoro. Ma la verità è che non porto questo libro in giro per i soldi. Certo, non sarebbe male averne. La moderatrice mi chiede:

«Nel romanzo non parli d’amore: si vede che tu, come tutte le vittime di violenza sessuale, poi hai avuto un distacco col maschile, non ti sei fidata più».

Mentre blatera di ferite insanabili, vite spezzate, ingoio bile. Nel romanzo non parlo d’amore perché non sono affari delle altre persone se scopo o no, figuriamoci se amo o no. E, che io ne parli o meno, che abbia amato e sia stata amata o meno, la mia esperienza non è e non deve essere paradigmatica di quella delle altre persone. Ne ho abbastanza di individualismi. In più, non percepire che quello era un libro d’amore, di profondissimo rotondissimo amore – perché solo l’amore ti rende talmente pazza da sputtanarti in quel modo, solo la disperata speranza di raggiungere l’altro lato, trovare ciò che hai perduto ma che non è riuscito a perdere te, può motivarti a scrivere di qualcosa di così intimo. E strumentalizzabile. E fraintendibile. Se solo fosse tornato nel modo giusto – mi viene da pensare. Se solo fossero tornati, penso quando l’orgoglio si dimentica il mio indirizzo, il che succede sempre più di rado. Perché il mio libro aveva un destinatario esplicito, ma almeno uno implicito. Ce n’è sempre almeno uno implicito. Uno segreto.

Se non mi sgrilletto oggi, muoio – penso.

Sono in albergo. Non ricordo neanche la risposta che ho dato alla moderatrice. Non ricordo se ho mascherato il fastidio con la timidezza goffa con cui mi esce la rabbia, certe volte, oppure con un’algida, malriuscita imitazione di un aplomb teutonico, alla Lilli Gruber.

Non mi sgrilletto, tuttavia. Apro il computer portatile, mi connetto al wifi dell’hotel. Invece di cercare i porno, che comunque mi hanno proprio scocciata, o almeno mi ha scocciata la dissociazione parziale che m’impongono obbligandomi a un punto di vista maschile – del tipo che perfino se cerchi “cunnilingus” la telecamera ti deve far immedesimare in lui e non in lei – e mi metto a cazzeggiare su Youtube.

L’algoritmo mi propone un video intitolato “how to GLOW UP for summer”. Così, con l’espressione in maiuscolo. È di una certa Tam Kaur, una tipa con la pelle scintillante e le sopracciglia con ogni probabilità tatuate, l’eye-liner tracciato con la precisione di un cecchino, labbra al botox o, forse, all’acido ialuronico. Se non sono la stessa cosa. Non ne sono edotta, a dire il vero.

Il concetto di “glow up”, però, non mi è nuovo. Da quando ho scaricato TikTok, qualche mese fa, ho iniziato a imbattermi in questa idea di “salire di livello”, manco fossimo Pokémon. Il concetto di glow up è profondamente connotato di genere, nel senso che le autrici (e le fruitrici) dei video sono per la stragrande maggioranza donne. Ti insegnano “come diventare la versione migliore di te”. I consigli sono sempre gli stessi, e in effetti in questo video si ripropongono: prenditi cura della tua pelle con una corretta skincare, fai attività fisica, accendi una candela ogni tanto, medita, fai le affermazioni allo specchio. Stronzate, eh. Tutte solenni stronzate. Eppure, nella disperazione di questo tour infinito, mi affiderei a un dio qualunque, a costo che non si presenti come Dio. Per cui, sì, ho iniziato a prendermi cura della mia pelle, ad accendere candele. Cammino mezzora al giorno, dicono che è sufficiente, che allunga la vita a noi sedentari. Con le affermazioni allo specchio ho più di qualche problema, ma alla fine ne ho capita la ratio, e per onestà intellettuale benché con vergogna devo ammettere che non è così stupida. Il punto è che se non hai nessuno che ti dica che sei una persona okay, magari anche una bella persona, devi sforzarti di dirtelo da sola: a questo servono le affermazioni, a contrastare il dialogo negativo che avviene già dentro di te, o le recensioni spiacevoli, sgradite che ricevi dall’esterno. Quelle che non sono critiche costruttive, almeno. È un modo come un altro per ridefinirsi, per non lasciarsi definire. Eppure, le rare volte che ho provato a dirmi “sei bella/brava/intelligente” allo specchio mi sono sentita bruttissima, e una pippa, e poi scema, tanto scema.

L’influencer a un certo punto dice (in inglese, ma lo traduco): «Toglietevi dai social. Questo ridurrà al minimo i confronti con le altre persone. È l’unico modo di vivere davvero, mentre là sopra è tutta una performance». E mi convince, cazzo. Penso, lo sai che c’è? C’è che io ora le cancello per davvero, queste app. Tutte: cancello Facebook, cancello Instagram, e cancello pure TikTok.

Proprio mentre mi appresto a premere “elimina”, però, mi viene in mente una cosa.

Ma questa qua, Tam Kaur, con i suoi 333mila iscritti, davvero mi sta dicendo di togliermi i social da un social? Controllo il suo profilo e scopro che lei ha, nell’ordine: Facebook, Instagram, TikTok, un podcast su Spotify e uno su Apple, Pinterest. Ha perfino un profilo su Snapchat! Che poi, Snapchat non era quell’app nata per farti fare i selfie con le orecchie da cane e la lingua penzoloni?

Mi sa che il cane, qua, sono io. E tutti quelli che danno retta a ‘sti santoni. Società della performance, dice. A quanto pare vale solo per gli altri. Se hai qualche decina di migliaia di follower no.

Mi faccio una risata mentre getto via il proposito peregrino di glowuppare. E penso che, forse, tra un ricco che m’invita a performare di più e un ricco che mi dice di smettere di farlo mentre lui lo fa, io quasi quasi preferisco il primo. Sono entrambe facce del mercato, ma almeno una non mi fa la morale.

Metto il pollice verso al video su Youtube. Digito “Pornhub”. E finalmente, mi sgrilletto. Incredibilmente, la masturbazione resta ancora mille volte meglio di qualsiasi meditazione.

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