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Marina Ivanovna Cvetaeva anteprima. Taccuini 1922-1939

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Il libro “Taccuini 1922-1939” di Marina Cvetaeva (Voland Edizioni, 2024), nella traduzione e cura di Pina Napolitano, esce in libreria il 22 marzo 2024. L’opera segna il percorso artistico e individuale della poetessa attraverso gli itinerari migranti delle città di Mosca, Berlino, Praga e Parigi. “I taccuini 1922-1939” annotano gli avvenimenti significativi ed emblematici di più epoche vissute nell’accattivante fervore dei movimenti artistici, rappresentati dal seducente entusiasmo bohémien di Berlino e dalla stimolante cultura della Boemia, delineano la fenditura dolorosa e disorientata degli anni smarriti dell’emigrazione a Parigi e nel drammatico ritorno in Unione Sovietica. Il mondo descritto da Marina Cvetaeva assorbe la lacerante traccia autobiografica nel magma denso di un inchiostro struggente e ardente, accoglie la gratitudine, la tensione inarrestabile alla vita nella sconfinata invocazione ai sentimenti, concentra la parabola sublime dell’esistenza nell’eternità delle idee.

Il libro regista il disagio emotivo di un’anima errante, trafitta nella sospensione di un tempo che arreda la sua dignità tra la gentilezza commovente del ritratto poetico e la riflessione prosaica suggerita dal pensiero storico. Aggiunge la ricchezza stilistica al sigillo accorato del sentire, sottolinea l’influenza coraggiosa delle frasi, distingue il rumore sordo del respiro disperato, dilata l’eredità narrativa della tragedia, inquadra luoghi ed emozioni nella determinatezza lucida e combattiva dell’addestramento segreto e privato alle vicissitudini. Marina Cvetaeva commenta lo stato imponderabile delle cose prendendo nota sulle percezioni e sulle impressioni riconosciute accanto a sé, nutre il desiderio di cogliere l’intensa e acuta libertà espressiva e di trattenere la condanna dell’incomprensione nel tumulto della storia, annienta lo sradicamento della nostalgia isolando la terra emersa dei ricordi dallo scarno e frantumato distacco di un tragitto introspettivo, incalza la vertigine intimista della precarietà e del vuoto. “Taccuini 1922-1939” accompagnano la previsione dell’incognito, scalfiscono con accenni, riduzioni e appunti, l’ineluttabile realtà, trascinano la chiave interpretativa dell’inquietudine, contengono la proiezione letteraria dell’urgenza della spiegazione, nello scenario disincantato e contaminato della bellezza, trascrivono l’elemento ritmico con la minuziosa e infinita confidenza della scrittura, fonte primordiale di un linguaggio che testimonia l’incarnazione della parola nella memoria umana.

Marina Cvetaeva illustra i frammenti personali delle sue remote sensazioni con vivace precisione, scioglie il freddo dell’isolamento nell’inesauribile calore delle tracce confortanti della profonda tenerezza, ascolta la coinvolgente e toccante cognizione dei conflitti interiori, rivendica l’acceso e appassionato clamore contro la dimenticanza dell’incomunicabilità. Il libro contiene la preziosa documentazione di foto dei manoscritti, distilla il ritratto di note e illustrazioni nell’espansiva fedeltà alla stesura dei giorni, nella costante e inviolabile osservazione del mondo, ripercorre le stagioni dell’ostilità e lo sconvolgimento dell’esistenza, piegata all’azione devastante delle opposizioni sociali, afferma la consolazione dell’arte, ribaltando le impetuose ripercussioni della sofferenza nell’elogio della purezza. Riferisce l’abisso di ogni riflessione, indica le contraddizioni della condizione ossessiva e creativa dell’arte, affida all’impronta esule dell’irrequietezza intellettuale l’impulsiva e fulminea seduzione dei testi. Marina Cvetaeva esprime il simbolo di una voce incantevole e affascinante oltre il confine dell’esilio dall’universo randagio delle proprie esperienze quotidiane, insegue il congedo definitivo come un incontro estremo nella detenzione di una voragine, affonda la frattura della morte nella censura contro l’anima, l’inesplicabile gorgo del silenzio nella lontananza, il canto della desolazione nella malinconica e disarmante esitazione di una pagina nuda.

Rita Bompadre

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Oggi, tra le 5 e le 6 – come ieri alla stessa ora, distintamente e

a lungo – in ogni dettaglio – in tutte le varietà di timbro – ho

sentito le campane. In tutti i toni. Molto a lungo. Heine – Nord-

see – non aveva sentito anche lui le campane?

Strano, alla stessa ora, due giorni di seguito. Le ho notate so-

lo quando le sentivo in realtà già da tempo. Allora ho comin-

ciato – ad ascoltarle.

Ieri, il 15, un tramonto divino, con una nuvola enorme – come                                                                                     

una montagna. La schiuma delle onde era color lampone, men-

tre in cielo, in un lago verdastro, spiccavano dei caratteri d’oro,

a lungo ho cercato di decifrarli – cosa c’era scritto? Perché –

era indirizzato – a me. Mi dispiaceva terribilmente che Mur non

lo vedesse. Mur è arrivato di corsa, ha detto: – Sì, benissimo

(bellissimo) – e di nuovo è corso via.

Oggi, il 16, ho di nuovo seguito con lo sguardo il sole, è tra-

montato nel cielo terso, il mare lo ha inghiottito, e quel fiam-

meggiare non c’era più, evidentemente – era la nuvola a dargli

quelle tinte.

Il Mar Baltico (se questo è il Baltico), di un blu divino: blu-

grigio, non blu-verde come il Mediterraneo, il colore dell’Oka

in autunno, mi piace immensamente, non capisco per nulla

quello svedese, il dottor Axel (non mi ricordo il nome), che se

n’è andato per sempre a Capri. Amare il Sud è troppo facile, ai

nordici è concesso solo – sognarlo. Mentre così: bassezza del

tradimento.

(Ah, ho capito! La Danimarca: è il salice bianco, ne sono con-

vinta, sono salici: qualcosa di arruffato, soffice e grigio, come

fumo, e dal fumo – le cime dei tetti e le pale dei mulini).

Ancora una osservazione: l’orizzonte non cela alcuna altez-

za: si può enumerare tutto – ogni albero che sovrasta gli altri,

ogni campanile. Ciò che è alto – se c’è l’orizzonte – non può

nascondersi. Così un giorno scopriranno anche noi (noi obli-

terati e schiacciati): ci riabiliteranno.

Si può dire addirittura così: l’orizzonte svela ogni altezza.

Questa è l’osservazione esatta.

Camminavo sul ponte, poi mi sono fermata e – per quanto pos-                                                               

sa parere ridicolo! non lo è – ho percepito fisicamente Napoleo-

ne in viaggio verso Sant’Elena. È pur sempre lo stesso ponte: le

stesse tavole. Ma allora c’erano – le vele, e viaggiare faceva più

paura.

Napoleone.

Sant’Elena.

Ho fatto molti sogni, tema: l’irrevocabilità. Mi affretto non so

dove – a finire di recuperare le ultime cose. Un sogno – lo ri-

cordo:vado a prendere il disco (il mio preferito) di Maurice

Chevalier “Donnez-moi la main, Mamzelle… Donnez-moi la

main” – con indicibile tenerezza canaille – la stessa che (un

tempo!) mi soggiogava – e il piroscafo è già lontano: a verste di

distanza. E io a Mur: – Sulla scialuppa il mare sarà mosso, è

meglio andare a piedi (sul mare), consapevole della scomodità

dell’andare a piedi, ma preferendolo al beccheggio (fidandomi

più delle mie gambe che della barca).

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