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Patricia Esteban Erlés anteprima. Le madri nere

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Patricia Esteban Erlés è una scrittrice spagnola. Ha pubblicato diversi libri di racconti premiati con premi prestigiosi. Con Le madri nere, portato in Italia dall’editore Cencellada, tradotto da Sara Papini e di cui pubblichiamo un estratto in anteprima, ha vinto il Premio Dos Passos come miglior romanzo.

Si tratta di una favola gotica a tema religioso. Il convento di Santa Vela è un labirinto fatto di corridoi senza uscita, finestre murate e scale che portano a camere inaccessibili. Riconvertito in orfanotrofio, a Santa Vela vengono accolte bambine accudite da suore fanatiche, che dividono il bene e il male in maniera netta e manichea.

Rasati i capelli, vestite in maniera identica, le orfane vengono private del nome di battesimo. Rinominate con la virtù cui devono aspirare, le bambine crescono nella paura fino a quando Mida, rinominata Ubbidienza per non essersi mai sottomessa, semina il caos il giorno che annuncia che Dio le ha parlato, confessandole che non esiste.

Pierangelo Consoli

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SANTA VELA

[…]

Forse saprei qualcosa di più di loro se non arrivassi alla sera così stanca” si diceva, “se non fossi una casa sconfinata, se non fossi così esausta per aver sorvegliato ogni stanza chiusa a sette mandate, ogni corridoio che non conduce da nessuna parte, ogni tratto di scala che finisce contro una porta murata. Non è facile essere da tutte le parti allo stesso tempo quando dopo una tempesta ti fa male ogni vetro rotto dell’ala nord. Sono un enorme corpo vecchio e stanco. Un corpo assurdo, pieno di arti trapiantati dalla follia di una donna anch’essa fuggita, non verso l’esterno, come la ragazzina di cui parlano le orfane, ma dentro, verso il mio interno, attraversando la magione in cui aveva sperato di essere felice con suo marito e la sua bambina. Trascino alcove dove non ha mai dormito nessuno e saloni spogli, esattamente come un’anziana porta qua e là tumori e ossa putrefatte. Non ho visto fuggire la bambina. Di solito mi addormento in preda alla stanchezza. Quando le luci si spengono e tutto rimane in silenzio riposo a malapena, mi lascio trasportare dal rumore dei respiri, dal filo dei pensieri di chi come me non può chiudere occhio oppure dalle fantasie delle innocenti che invece sono riuscite a addormentarsi. Non ho udito gli zoccoli del cavallo avvicinarsi, nemmeno i piedi scalzi della ragazzina percorrere il sentiero. Alla fin fine, sono una vecchia casa di duecento anni, ho dodici solai, quarantasette camini e quasi mille finestre. Uno specchio soltanto, appeso nella stanza di sorella Priscia rivolto verso il muro, come un occhio cieco. Sono, lo so bene, una magione maledetta, la casa con la storia più triste di tutte”.

La casa sospirò fragorosamente. Nonostante le ragnatele del tempo che a volte le aggrovigliavano i ricordi, era ancora in grado di vederla, di evocare senza sforzo la figura minuscola della sventurata Larah, che volava su per le scale, che percorreva gli innumerevoli corridoi sempre senza fiato, sempre guardandosi indietro, temendo che i suoi inseguitori infine la raggiungessero. Larah Corven, che era stata la ragazza più bella di una lontana città prima che tutto avvenisse, ma che quando arrivò alla casa era già una giovane vedova e una donna che non poteva nemmeno rifugiarsi nel conforto di chiamarsi in qualche modo, di condensare il suo dolore in una parola, come accade a tutte le madri che perdono un figlio.

Povera Larah” si doleva la casa, nel ricordarla. “Stava fuggendo da così tanti giorni che svenne di pura fatica davanti alla mia porta”. Aveva viaggiato senza fermarsi a riposare nemmeno una volta, era partita da un piccolo cimitero, situato dalla parte opposta del paese, dove aveva lasciato fiori freschi sulla lapide del marito e aveva sotterrato nella stessa tomba di famiglia la bara bianca che conteneva il corpo minuscolo di un feto e un foglio scritto a mano, con il nome che avrebbe avuto la bambina se fosse nata. Si lasciò cadere accanto alla scala dell’ingresso e quando tornò in sé alcuni domestici l’aiutarono a entrare ancora intontita nell’enorme casa vuota, una delle proprietà che Larah Corven aveva ereditato quando era rimasta vedova. Era arrivata disposta a vivere per sempre in quella dimora, una villa grande ma per nulla mostruosa. Sin da subito i domestici rimasero affascinati dalla bellezza e dalla follia della padrona. Larah Corven non pettinava la chioma sconvolta e guardava ogni cosa con gli occhi febbrili di chi è assediato dai suoi stessi incubi. Mangiava appena e insisteva a dormire ogni notte in una stanza diversa, per nascondersi dagli spiriti dei soldati morti nelle ultime due guerre, che, a quanto raccontava lei stessa, avevano gettato un maleficio su tutta la sua famiglia. Il suo amato marito, il figlio unico di un celebre fabbricante d’armi, era riuscito a inventare il meccanismo automatico che trasformava un normale fucile nell’artefatto più mortifero mai creato dall’uomo fino a quel momento. Le vendite dei fucili Corven si erano decuplicate e la famiglia si era arricchita in pochissimo tempo. Quella fortuna lo aveva trasformato in una delle prime vittime della maledizione, assicurava la bella Larah, fissando su chiunque volesse ascoltarla i suoi occhi da pazza.

Larah conobbe il giovane Corven durante il suo debutto in società. L’ambizioso erede seppe, non appena la vide arrivare nel salone da ballo, avvolta nel bell’abito bianco da debuttante, che quella ragazza della cui bellezza aveva tanto sentito parlare era la donna che avrebbe sposato. Era quasi impossibile non invaghirsi dei riccioli neri di Larah, della sua risata simile a uno scampanellio e dello sguardo azzurro ghiaccio che tanti ragazzi del posto avevano ordinato di dipingere in piccoli ritratti che poi conservavano vicino al petto, all’interno della catena dell’orologio o di un medaglione, prima di andare al fronte. Ma soltanto uno, l’attraente e arguto Der Corven si propose di renderla sua moglie. Era talmente ricco da potersi permettere di far volare l’immaginazione, di trasformare in realtà ognuno dei sogni di Larah.

Larah visse i mesi precedenti alle nozze immersa in uno stato di felicità febbrile. La mattina dopo il ballo il suo fidanzato le regalò un cavallo bianco nano. Fece portare dal centro del paese il primo grammofono, bello e mostruoso quanto una gigantesca chiocciola di mare. Ordinò di costruire un’immensa casa di pietra in mezzo alla campagna, una magione con una minuscola cappella, una scuderia e un enorme parco custodito da una coppia di statue simili a loro.

Dopo le nozze, Larah capì che era possibile innamorarsi ogni giorno di più di quel principe delle armi. Era affascinata dalla sua dolcezza arrogante, da quel modo che aveva di ricoprirla di lusso in ogni occasione, di inginocchiarsi davanti a lei senza perdere nemmeno una briciola della sua forza. Der Corven, con i suoi ricci capelli castani e i suoi imponenti due metri di statura era il sogno di qualsiasi ragazza in età da marito e lei era il sogno di Der Corven. Tutto pareva talmente semplice che a Larah veniva da ridere quando ripensava alla sua fortuna.

Ma un brutto giorno le cose cominciarono a contorcersi come le dita di un vecchio. All’inizio, la madre di Larah, da cui aveva ereditato gli occhi acquamarina, si ammalò di una strana febbre. Dal primo starnuto all’ora del tè all’agonia dolorosa che le faceva sputare sangue tutte le volte che tossiva, trascorse appena una settimana. Dopodiché giunse la caduta da cavallo del padre di Der, che si ruppe il collo contro una pietra del sentiero. La florida fabbrica passò quindi nelle mani dell’erede, che assunse il nuovo ruolo con risolutezza. Ma la morte si abituò a volteggiare intorno a loro e a poco a poco si impossessò di ogni membro delle due famiglie. Diretti al piccolo camposanto sfilarono i cortei funebri di prozie e cugine adolescenti. Le disgrazie si succedevano e non passava un mese senza che ci fosse da ordinare una corona di rose nere per onorare un amato defunto. Larah non capiva quel crepuscolo repentino che aveva avvolto tutti loro né come il pesante vestito da lutto fosse diventato l’unico capo che trovava ogni mattina appeso a un attaccapanni davanti allo specchio, atroce e paziente come il medico che arriva soltanto per certificare un decesso.

Ma il peggio doveva ancora arrivare. Una mattina di ottobre, dal prototipo di un nuovo modello di fucile, ancora più letale dei precedenti, partì un proiettile mentre un impiegato della fabbrica lo stava provando in presenza di Der. Il proiettile rimbalzò contro il muro ed entrò nell’occhio destro del giovane padrone. Gli fece a pezzi metà del volto, ma quando Larah giunse al suo fianco, trovò ancora la forza di sorriderle con il lato del viso rimasto intatto, simile a una vecchia maschera rotta. Der cercò di parlarle, aprì gli occhi e Larah vide come, per la prima volta da quando lo aveva conosciuto, il sopraggiungere della morte gli fece sbattere le ciglia con qualcosa di simile alla paura. L’occhio sinistro rifletteva la perplessità di chi non avrebbe mai immaginato che la vita sarebbe durata così poco, che alcuni addii sarebbero stati così brevi, così impacciati. Fu il rigido vestito nero a costringere Larah a camminare davanti all’imponente bara di mogano fabbricata su misura, fu quell’abito da lutto a imbavagliarla e a obbligarla a dondolare al ritmo di un duro fruscio di sottane e singhiozzi, mentre si accarezzava il ventre a ogni passo, in cerca di qualche conforto. Non aveva neanche avuto il tempo di dare al marito la lieta notizia. Ma nemmeno lei poté aggrapparsi alla nuova illusione per non cedere alla follia. Questa volta non ci furono drammi, o grandi tragedie degne di essere consegnate a un feuilleton. Una notte Larah sognò di alzarsi dal letto vestita a festa e di scendere in punta di piedi la scalinata della sua casa adesso così solitaria, perché la morte non la udisse uscire. Non aveva il coraggio di guardare dietro di sé e raccogliendosi le gonne scese quasi correndo il sentiero che conduceva al lago, fino a raggiungerne la riva, ormai senza fiato. Quando si vide davanti all’acqua ghiacciata si agitò inquieta tra le lenzuola. Non farlo, avrebbe voluto supplicare la Larah del sogno. L’acqua però era una porta aperta e lei voleva attraversarla. Gridò o cercò di gridare, ma lei non la udiva. Di schiena a chi la stava sognando, agghindata in un delizioso abito con una stampa di rametti di nontiscordardimé blu, pettinata con uno chignon alto che lasciava in vista il collo sottile, Larah si introdusse lentamente nel lago scuro. E a quel punto la gola spezzata dell’altra Larah ululò, la sua voce rimbombò nella notte del sogno, facendo sì che la superfice dello stagno si increspasse un istante, sorpresa.

Larah si svegliò nella quiete della sua camera da letto, e per prima cosa pensò che non aveva un vestito come quello, né alcun motivo per scappare di notte e immergersi nel lago. Si portò la mano alla fronte e sospirò sollevata nel sentire sulla guancia la carezza leggera della manica di pizzo della camicia da notte, un capo del corredo da sposa che aveva tessuto sua madre. A quel punto pensò al lago, là sotto, e dentro di lei cominciò a crescere il terribile sospetto che nel sogno ci fosse qualcosa di vero, proprio come c’è sempre un po’ di menzogna in un ricordo. La mano tremante palpò la falda della camicia da notte, intuendo le gambe troppo fredde, il tessuto zuppo e un dolore ardente e umido che giungeva dal nulla al centro stesso del suo corpo.

Tutto ciò raccontavano a voce bassa i domestici di Larah, che aveva abbandonato quella casa per fuggire dalla stanza dov’era morta la figlia mai nata. Da allora soltanto la pazzia permise alla donna di non dimenticarsi di respirare. Mai più raccolse i capelli in uno chignon alto, perché voleva allontanare da sé il ricordo del sogno del lago e non tornare a immergersi in esso come quella notte. Intraprese subito il viaggio verso una delle tante dimore in cui non aveva avuto il tempo di vivere con Der Corven. Larah desiderava raggiungere il prima possibile quella casa vuota, ma dopo diverse ore al gran galoppo il cocchiere fermò la carrozza e le parlò. «Siamo vicini a una piccola città della costa, signora. Se i cavalli non bevono presto un po’ d’acqua, se non gli cambiamo subito i ferri, non arriveranno vivi a destinazione, moriranno prima di sete e stanchezza». La donna accettò controvoglia di concedere una tregua agli animali. Non appena trovarono una fucina il cocchiere slegò le bestie e Larah saltò giù dalla carrozza incapace di stare ferma anche solo per un istante. Si guardò intorno e vide che sull’angolo del vicolo accanto a cui stavano abbeverando i cavalli c’era una piccola taverna. Sentì allora qualcuno chiamarla dall’interno, promettendo a sussurri un po’ di conforto per il suo cuore torturato. Senza pensarci due volte entrò in quel posto che sapeva di alghe e legno corroso dall’acqua salata. Non udì la voce adirata del taverniere che l’apostrofava gridando, né si accorse degli occhi acquosi dei marinai che la osservavano avanzare diretta verso il retrobottega, e nemmeno si fermò quando raggiunse lo stretto corridoio che conduceva a uno stanzino minuscolo. Lì dentro c’era una mulatta che la guardava seduta nella penombra, al centro, immobile come una statua e con l’espressione contrariata di chi sta aspettando da tempo qualcuno che non si decide ad arrivare. Nel guardare da vicino la tunica brillante che ne avvolgeva il corpo magro e il complicato turbante di raso zafferano che le ricopriva i capelli, Larah pensò a un uccello esotico. La sconosciuta l’accolse con un silenzio teatrale e fissò su di lei i severi occhi neri. Le indicò di sedersi con un cenno maestoso più simile a un ordine che a un invito. Tese le mani affilate come gli artigli di un uccello e strinse quelle di Larah. Chiuse gli occhi cominciando a sussurrare una melodia monotona, una litania ipnotica con la quale pareva cullare sé stessa, mentre faceva dondolare il corpo avanti e indietro. D’un tratto sollevò il volto affilato e osservò con diffidenza qualcosa che Larah non riusciva a distinguere nell’oscurità dello stanzino. Attraversò l’ambiente vuoto con pupille irose e imprecò in una lingua remota verso i morti che tardavano a rispondere alla sua chiamata.

Larah tremò e capì che erano arrivati quando la mulatta Lobelia chiuse di nuovo gli occhi abbozzando un sorriso di gratitudine che la fece apparire molto più giovane, quasi una bambina che finalmente aveva trovato la porta per il posto più bello del mondo.

«Sono arrivati. Vogliono parlare con te» mormorò, alzandosi in piedi con l’eleganza di una principessa africana. Lobelia chinò lo scheletro leggero distendendo le braccia lunghissime in una graziosa riverenza di benvenuto, come se davvero una comitiva di spiriti fosse entrata nella stanza scarsamente illuminata e lei stesse per ritirarsi con discrezione. Ma a quel punto alzò la voce e qualcuno né vivo né morto, qualcuno disperato e ferito per sempre gridò.

«Vattene».

Larah ne vide chiaramente il volto raggrinzito e sudato, incendiato dalla certezza della fine come da un fulgore nefasto. La stessa sorpresa addolorata di Der quando il suo occhio sano vide qualcosa per l’ultima volta. Lobelia si piegò su sé stessa e mentre sollevava lo sguardo un altro soldato morto parlò attraverso la sua bocca, con un leggero accento del sud.

«Vattene lontano». Ne arrivarono altri. «Verremo a cercarti».

La guardavano dall’altro mondo e minacciavano di tornare.

«Ti troveremo ovunque tu vada».

«Vattene con la tua maledizione e prega molto. Prega per noi».

Questo, dissero i domestici, raccontava la giovane vedova Corven al suo arrivo. Questo mormoravano coloro che l’avevano accompagnata fin qui, prima che io diventassi Santa Vela, quando ancora i viaggiatori sorridevano e si soffermavano un momento ad ammirare le tettoie triangolari delle due torri laterali, rosse come cappelli per bambini. Quando ancora c’era chi voleva contemplare la mia grandezza semplice, l’aspetto da fidanzata che attende il suo amore davanti all’altare della mia facciata di pietra giovane. Le cameriere si impietosivano di fronte alla disgrazia della loro signora e si innamoravano del morto a cui lei aveva donato la sua sanità mentale. La governante eseguì gli ordini e fece chiamare il capomastro, che apparve subito disposto a tracciare la linea che separava il mondo reale dal regno allucinato di Larah. Arrivò accompagnato da una nutrita combriccola di manovali e tutti si misero immediatamente a lavorare alla costruzione di un rifugio impossibile, che permettesse alla giovane vedova di fuggire dai fantasmi che Lobelia le aveva mostrato.

Larah ordinò un corridoio che collegasse l’edificio principale a un altro, in cui avrebbero costruito più stanze possibili, tutte le scale che fossero stati capaci di immaginare.

Loro portarono i martelli, e i martelli parlarono.

Voleva anche solai, solai con lucernari e cantine cieche. Taptaptap.

Gli uomini obbedirono, colpirono i muri come una legione di insetti operosi. La casa che ero gridava e nessuno la udiva. Piangeva per la sua bellezza da paradiso perduto, ma invano. Loro si affannavano a tessere una ragnatela eterna. A scolpire, sin dall’alba, mostruose torte di tetti.

E camini grandi abbastanza da contenere il piccolo corpo della donna tremante nel caso avesse dovuto nascondersi dai fantasmi nel cuore della notte.

E numerose cucine, in ognuna delle navate parallele a cui si sarebbe potuto accedere dall’originale. Dispense, camere da letto e saloni. Tumori, gambe di legno, occhi di vetro. Lavanderie, altre camere da letto e finti scalini e porte murate. Era necessario ingannarli tutti, ed erano tanti.

Duecento finestre. Un passaggio segreto che conduceva alla cantina. E uno specchio soltanto, che qualcuno sistemò girato al rovescio per sempre, nella futura cella di sorella Priscia.

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