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Andrea Valentini. L.A.M.F. La leggenda di Johnny Thunders

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Ora, parliamoci chiaro: va bene il boato della folla, il bubblegum del successo, lo status a volte quasi ultraterreno che la fama mainstream può donare, ma vuoi mettere, certe volte, cosa significhi anche il “non avercela fatta”, tanto più quando tutti i presunti “ingredienti” promettevano un’irrefrenabile, inevitabile ascesa? Vale per lo sport, così ricco di campioni bruciatisi sulla soglia di un traguardo segnante, nella vita di tutti i giorni, quando un qualche grande obiettivo (economico, sociale, amoroso, tutto ciò che si immagina possa rientrare nei desiderata di un uomo) si è trasformato inesorabilmente in sabbia proprio mentre lo si stava già accarezzando e, sì, certo che sì, vale anche per la musica. Che forse degli ambiti artistici ed espressivi in genere è quello più in grado di sedurre e promettere enormità, quello più predisposto a far accadere un clamoroso colpo di scena piazzando da un giorno all’altro su un qualche tipo di non preventivabile piedistallo un signor nessuno (più di un signor nessuno, spesso) saltato fuori da chissà dove.

Bene, nel mondo delle sette note pochi, ma davvero pochi possono dire di aver sprecato la propria occasione godendo di un’aura anche fin troppo luminosa e duratura da next big thing come Johnny Thunders. A ricordarcelo è questo intenso e ben assemblato “L.A.M.F. La leggenda di Johnny Thunders” di Andrea Valentini (Tsunami Edizioni, I Cicloni, pp. 323, € 25), una pubblicazione che tutti (e tutti inguaribili come chi vi scrive) amanti italiani del chitarrista/cantante newyorchese aspettavano da tempo, dopo aver probabilmente provveduto a divorare anni addietro il fondamentale e non sempre facilmente reperibile “In Cold Blood” di Nina Antonia, uscito in una prima edizione quando il nostro era ancora in vita e aggiornato in due successive tornate dopo la sua scomparsa.

Che dire… tornare ancora una volta sulle tracce di Thunders, vuol dire senza dubbio e innanzitutto ritornare con la mente e con il cuore ad un’epoca (e a un’epopea) aurea del rock, quando l’illusione di imbracciare uno strumento, di scrivere canzoni e di cambiare il corso della propria (e dell’altrui) esistenza non assumeva d’acchito i contorni di impresa chimerica, in virtù di un mercato discografico fatto di grandi numeri, di lanci continui di nuovi gruppi e, massimamente, di tanta voglia di provare un salto nel vuoto da parte dei giovani. Un’epoca non certo più facile o meno drammatica di quella che stiamo vivendo o che abbiamo in parte già vissuto, ma ad ogni modo abitata, anzi, permeata nella sua essenza più profonda dalla volontà, meglio, dalla necessità di provare a fare qualcosa del proprio sentire. Un’epoca in cui un giovanotto apparentemente senza arte né parte, ascoltando semplicemente una o due rock songs, capiva dove e da che parte doveva stare, mollando ogni freno e “liberandosi”. Esattamente quello che Johnny Thunders ha fatto, librandosi in un volo forse un po’ sghembo ma di sicuro dotato di una traiettoria fin da subito unica, che lo proiettò già da ragazzo in una dimensione sentimentale prima, solo dopo cerebrale, che soltanto chi almeno una volta nella sua vita ha saputo amare con trasporto purissimo e coscienza di una certa, irrisolvibile disperazione costruttiva il rock può davvero avvertire.

Capirete, dopo una premessa così corposa, che diffondersi troppo sulle informazioni riportate in queste pagine rovinerebbe il piacere (e il dolore) che la loro lettura infonde: infatti, nel mondo di internet e del semplice clic “appropriante”, ricavarne passando per la rete, si sa, può essere un gioco da ragazzi, mentre invece crearci una solida impalcatura per raccontare una delle parabole più sconvolgenti nella storia che un determinato genere di musica (e di attitudine) ricordi non è affatto un gioco. Ci vuole un progetto, è vero, ma ci vuole soprattutto affetto. E rendersi conto che la ricostruzione di una biografia unica come questa rischia di ingenerare in chi la scrive un fastidioso senso di compiacimento, quasi che si trattasse di stilare una sorta di “catalogo” di eccessi ed esagerazioni ad uso e consumo dei soliti attempati praticatori della materia o, peggio molto peggio, di mettere in mano, con studiata nonchalance, a qualche ragazzino uno strumento di perdizione con il quale baloccarsi. Niente di più sbagliato. Valentini, servendosi di una ricca biografia e di una attenta selezione di interviste e testimonianze, ma soprattutto lasciandosi guidare contemporaneamente e dalle esigenze redazionali e da quelle sentimentali che, derridianamente verrebbe da dire, possiamo spesso ravvisare nel testo, mette su un volume che vale, che non ha pretese rivelatorie né (date le circostanze mai troppo chiarite della scomparsa del suo protagonista) cospiratorie. Svolge invece coscienziosamente il suo compito di autore, lasciando che siano le gesta di Thunders a sostanziare l’appeal romanzesco del suo lavoro. E, augurandoci che i più che si avvicineranno a questo tomo (anche della “misura” giusta, a dirla tutta) conoscano già abbastanza i fatti relativi alla nascita delle New York Dolls, degli Heartbreakers, della presunta invenzione di quello che molti chiamano punk e della tossicodipendenza, la speranza è che le lor signorie possano afferrare qualche nuova sfumatura (e detto da chi ha letto il must di Nina Antonia, ovviamente) per avere un quadro d’insieme più composito di un musicista e di un uomo il cui culto, è vero, non si è mai spento da quel dannato 23 aprile di ormai 33 anni fa, ma che, senza alcun dubbio, meriterebbe una riconsiderazione artistica e di dignità umana che lo collocasse lì tra le nuvole dell’Olimpo più olimpico del rock, a favore delle nuove generazioni ma anche di chi, e purtroppo non sono pochi, pensa che a quel livello di importanza lui non possa stare.

Per tutte queste ragioni, non trovo sia giusto rivelare nulla di quello che andrete a scoprire o a riscoprire, ma, prima di concludere, voglio sottolineare un’ultima volta la bontà di questa sortita editoriale e il desiderio di rendere giustizia a Johnny Thunders, che sicuramente ha animato Valentini e chi lo pubblica fin dall’inizio.

Inevitabile controindicazione finale: nei giorni successivi alla lettura di questo “L.A.M.F.”, niente di più facile che possiate essere portati ad ascolti compulsivi del Nostro. Se non possedete i suoi dischi su un qualsivoglia formato (e questo, inutile dirvelo, non solo non è bene ma è grande, grande male) e dovrete utilizzare una qualche piattaforma, vi consiglio di non rinunciare ad una serrata opera di scouting su You Tube: si scoprono delle chicche incommensurabili che vi porteranno ad amare ancora di più o ad innamorarvi disperatamente dell’unico e solo John Anthony Genzale jr, irroratosi di luce e divenuto per tutti noi Johnny Thunders.

Che forse, parafrasando le liriche di una delle sue più note composizioni, non era davvero “nato per perdere”. Oh no, no davvero!

We can put our arms around a memory!

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