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Vasco Rossi inedito. Patty Pravo c’est moi, avrebbe detto Flaubert

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In occasione dell’incontro a Taranto con i fan – ufficializzato- proponiamo una intervista inedita di Gian Paolo Serino a Vasco Rossi: in occasione del libro “Vasco Rossi. Voglio una vita come la mia”. 

Vasco Rossi apparirà – questa la data ufficiale in anteprima abusiva per Satisfiction – dal 27 settembre in una docu-serie in 5 puntate su Netflix titolata “Il supervissuto. Voglio una vita come la mia”. 

Per la prima volta Vasco Rossi parlerà della “malattia” che lo ha portato ad affrontare la morte tre volte o come le definisce Vasco Rossi “tre malattie mortali”. 

Ricoverato, come rivela lo stesso cantante, per le conseguenze di “osteomelite e endocardite” (potete cercare le 2 parole associate su Google e trovare la causa).

Ecco l’intervista. 

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Come vivi, ogni volta che non sei nella musica?
A fatica.

Dai, non scherzare.
Non è troppo uno scherzo. Si vive un po’ a fatica, senza musica, lo sai. L’ho già detto tante volte, ma il sole non sorge sempre luminoso.

Poco calcio e molta moto?
Il calcio mi lascia indifferente. Tifo Inter solo nel derby.
Mi piace invece andare in giro in moto, senza una meta.
Il calcio mi piace quando è giocato dai grandi fantasisti.
Mi ricordo Maradona. Una volta l’ho visto da lontano, in un ristorante, dove cenava con la moglie. Volevo avvicinarmi per chiedergli un autografo, ma, prima di riuscire a decidermi, mi è arrivata al tavolo una bottiglia di champagne.
Me la mandava lui. Ha fatto un sacco di cazzate, ma chi non le ha fatte? Comunque le ha pagate tutte sulla sua pelle.

Ti piace scrivere per gli altri?
Ogni tanto. Mi è piaciuto con Nicoletta.
Patty Pravo c’est moi, avrebbe detto Flaubert. È la mia parte femminile, incarna la donna che è in me, più o meno.
E, più di tutto, ci assomigliamo: siamo entrambi ribelli, anticonformisti, anarchici, insofferenti.
Ci piace provocare e proviamo gusto nel trovare sempre nuove sfide.

Le canzoni più belle vengono di notte?
A volte. In passato è successo molte volte. Le canzoni, certe volte, sono come sublimazioni del sesso. È notte, hai sonno e non riesci a dormire e vorresti una donna. E, magicamente, nasce una canzone.

L’insonnia andrebbe preservata come i panda, quindi.
Eh, per scrivere aiuta. L’insonnia è il motore della musica.
Fa girare tutto. Non mi piace andare a letto, mi mette agitazione e malinconia, persino tristezza. Poi ho imparato ad accettare filosoficamente il sonno e anche il fatto che vivo in una società dove si possono comprare le pillole per dormire ma è proibito prender quelle per stare svegli.

Vasco filosofo. Ti ha aiutato Bonaga?
Siamo amici, sì. Abbiamo diviso molte serate tra deliri (miei) e filosofeggiamenti (suoi). Si impara molto, dal confronto tra delirio e filosofia.

Cosa hai imparato?
Che non siamo solo la somma delle nostre esperienze, come avevo sempre pensato, ma siamo anche il frutto delle esperienze che non abbiamo vissuto.

Nietzsche.
Lui. Ma non è il solo.
Hai presente Aut-aut di Kierkegaard? Dice più o meno che nella vita ti devi buttare, che ci vuole più coraggio a star dentro che a star fuori.

Cosa ti attrae della filosofia?
Mi sembrava un bel luogo dove trovare delle risposte.
Poi ho capito che ci sono solo domande.
Quando ho mille dubbi, l’ultima persona che voglio vicino è uno pieno di certezze. Io diffido di chi ha troppe certezze.
Mi fa paura, perché, alla fine, se capita che quelle certezze, per un motivo o per l’altro, si sgretolano, che fai? Come ne esci?
Meglio vivere di incertezze, che portano con sé anche la sofferenza, che però passa, come la marea. Di questo parla quella canzone, «Marea», quando dico: «Lo so cos’è la marea… Io lo so com’è sentirsi a terra… Io non ho paura.
Sono così insicuro che non credo a niente… Non ho paura di nessuno ma ho paura sempre!»

Perché non hai mai voluto duettare con Pavarotti?
Perché non c’entro niente con lui. Perché non mi piacciono i duetti. Se devo duettare, lo faccio con la mia compagna.
E la beneficienza la faccio a modo mio. Insomma, non ho mai visto il senso del nostro cantare insieme, nonostante i tentativi di convincermi da parte di Nicoletta Mantovani. E poi, ognuno ha le sue manie.

Scegli un musical.
Jesus Christ Superstar.

Un artista italiano.
Due: De Andrè e De Gregori. «Amico fragile» di Fabrizio è una delle canzoni più belle e devastanti della musica italiana. Francesco è un poeta. Ho visto come un punto d’arrivo la sua decisione di cantare «Vita spericolata » dal vivo, meglio di un Oscar; già mi ero emozionato quando avevo letto che la cantava sotto la doccia, figurati in un tour. Ci sono anche altri due di cui abbiamo già detto: Mogol e Battisti; quello che hanno combinato ai tempi de «Il mio canto libero» rimane insuperato. Bilanciamento perfetto fra testi e musiche: uno spettacolo. Guarda che Battisti è stato per l’Italia quello che i Beatles sono stati per il mondo. Prima dei Beatles, il pop si fermava a «Only You». Invece, «quel gran genio del mio amico / lui saprebbe cosa fare / con un cacciavite in mano / fa miracoli / ti regolerebbe il minimo / alzandolo un po’». Dimmi: quando mai, in Italia, qualcuno aveva scritto una cosa del genere?

Nessuno. Però…
Però ci sono alcune canzoni bellissime di tanti altri: «Giudizi universali» di Samuele Bersani è un capolavoro, «Je so’ pazzo» di Pino Daniele è anche un po’ il mio manifesto.
E senza «Quelli che…» di Enzo Jannacci io non avrei mai scritto «Siamo solo noi». Gianluca Grignani ha fatto belle cose. È un po’ il nostro John Lennon, ha il senso della melodia ma sa e vuole sperimentare. È un inquieto, un artista.
Anche Daniele Silvestri ha un dono non comune.
Naturalmente escludo Gaetano Curreri, ma solo perché fa parte della famiglia. Lui ha scritto cose sublimi. Sapere che esiste uno come lui, mi fa stare tranquillo. Soprattutto se è vicino a me.

Cosa pensi di Ligabue? Ha detto che farebbe volentieri
un pezzo con te.
Ti ho già detto che non amo i duetti, se non tra le lenzuola, e lui non mi pare il partner adatto a un incontro ravvicinato e intimo. Ligabue è bravo, fa belle canzoni. Non ho niente contro di lui. Mi ha dato fastidio una sola volta, per una sua dichiarazione. Era appena morto Massimo Riva ed eravamo tutti distrutti. Lui, in un’intervista, ha detto che la droga fa male, che l’eroina è pericolosa e va evitata. Siamo d’accordo, però poteva risparmiarsi quell’uscita in quel momento. Però, poi ha detto che le sue parole erano state fraintese e decontestualizzate. Ripeto: è bravo. Però il rock in Italia continuo a essere io. È l’unico argomento su cui non ho mai avuto alcun dubbio.

Hai una forte simpatia per Valentino Rossi e per Paolo Rossi: l’affinità elettiva sarà mica una questione onomastica?
Non ci avevo mai pensato. Proverò a contattare tutti i Rossi della guida. Però sono tanti, cazzo. Valentino è un grande perché va forte e se ne frega del mondo, perché è il migliore; Paolo è un grande perché vorrebbe cambiare il mondo e renderlo migliore.

Il tuo disco più bello?
Se vado a istinto dico Bollicine o Canzoni per me, ma la risposta più giusta sarebbe: quello che uscirà domani.

Il più brutto?
Credo Cosa succede in città. O Liberi… liberi, perché era il prodotto di un periodo difficile, dove temevo di aver perso l’ironia e la rabbia, la grinta che mi aveva spinto fino a lì. Invece era solo un disco di passaggio, come dite voi? Un disco di transizione. Però se mi fai la stessa domanda tra un mese, magari rispondo diversamente.

Mai avuto il blocco dello scrittore?
Sì, due anni da incubo. Prendevo la chitarra e usciva sempre «Vita spericolata». Così dentro di me s’insinuò il dubbio di aver già detto tutto, di aver già dato il meglio – o il peggio, direbbero i miei nemici – di me. Per fortuna è passata. Il momento più brutto è quando finisce il tour e tu torni a casa a riposare. Da quel momento sei lì, ad aspettare che nasca una canzone. Fino a quando non nasce, sei nervoso, perché ti chiedi quando arriverà. Poi arriva e capisci che tutto ripartirà un’altra volta.

Il primo disco di cui ti sei innamorato?
Se è proprio il primo non so, però mi faceva impazzire «Se perdo te» di Patty Pravo. Divina. L’unica persona che conosco, oltre a me, che non sa quanto costi un etto di prosciutto e un litro di latte.

Primo concerto?
Deep Purple con Ian Gillan a Bologna. Leggendario il modo con cui teneva l’asta del microfono.

Un sopravvalutato?
Ti lascio Celentano e mi tengo Paolo Conte, ti lascio Mina e mi tengo Patty Pravo. Però stiamo parlando di fuoriclasse.

Con Celentano hai anche un conto aperto: non andò troppo bene, a Fantastico.
Non andò per nulla. Alle prove, Celentano cercò di convincermi che dovevo rimanere seduto tra la gente, poi lui schioccava le dita e io scattavo. Non mi sembrava una grande idea, ma feci finta di nulla. Però quando mi disse che voleva fare una scenetta con Boldi dove uno dei due faceva all’altro: «Ehi, guarda quello lì, non ti sembra un po’ fuori di testa?» pensai che era meglio salutare tutti e tornare a guardare Celentano alla televisione.

Un modo di cantare.
Lou Reed. Sembra sempre che ti faccia un favore. È una vera rockstar.
Ma mi piace anche come canta la gente ai miei concerti.
«Una canzone per te» la fanno molto meglio loro di me.

Il ricordo da cancellare?
Vicenza, mi sembra fosse il 1978. Ero salito sul palco pronto all’indifferenza e anche ai fischi, ma non alle freccette di carta. Io cantavo e loro cercavano di colpirmi. Ero così umiliato che non riuscivo ad abbandonare, a scendere e correre via. “Questa è la vita che vuoi davvero fare?” mi domandai a letto, mentre non riuscivo a prendere sonno.
Mi risposi di sì. Quell’umiliazione mi diede un’energia pazzesca.

Un sogno.
La marijuana dal tabaccaio vicino alle sigarette.
E una figlia. Una femmina: l’unica donna che mi amerà per sempre.

Un’illusione.
Che i critici mi lascino in pace quando esce un mio disco e non mi chiedano di commentarlo. Perché io capisco che cosa ho fatto solo un anno dopo. La mia illusione è poter parlare oggi di un mio disco uscito l’anno scorso.

Una cosa che non hai mai fatto.
Cambiare i pannolini.

Bar o casa? O bar e casa?
Il bar è casa. Hanno la stessa valenza. Quando i bar sono bar come si deve, sono come una famiglia.

Cosa non bisognerebbe mai fare?
Prendersi troppo sul serio. Anche perché cambiare idea è un attimo. Solo gli stupidi la pensano sempre allo stesso modo. A me capita sovente di dire una cosa e poi tornarci sopra dopo un po’ e rimangiarmi tutto. Questo non è essere rincoglionito, è continuare a interrogarsi, senza pregiudizi.
E poi non bisognerebbe mai farsi di eroina. Piuttosto che l’eroina meglio una revolverata in testa.

Hai un Dio?
Ho il mio Dio, che non è quello cattolico, musulmano, buddista o ortodosso. Ho un Dio che prego, perché da soli è dura. Se non credi in niente è durissima. Poi, dipende: se mi fa male lo stomaco, vado da un medico, non certo a Lourdes.

Ti fa paura l’idea di abbandonare la musica, di non scrivere più canzoni?
No, mi fa paura l’idea di rompere i coglioni. Spero di essere così intelligente da capire, se mai arriverà il momento di dire basta, di farlo prima di diventare patetico, o la controfigura di me stesso. Una volta avevo paura che la voce finisse prima della canzone. Capisci? Non credevo che la mia voce reggesse per un’intera canzone. Ora la voce è l’ultima delle mie preoccupazioni. Credo che durerà, ma se anche non fosse, ci penserebbe la gente a finire il brano per me.

Come ti piacerebbe essere ricordato?
Come un apripista.
Ma temo che le ironie si sprecherebbero

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