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Pietro Veronese anteprima. La famiglia. Una storia ruandese

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Un giorno del 1959, quando avevo sette anni”, così mi raccontò mia madre, “si presentò da noi un gruppo di persone. Papà era fuori con le mucche, lo presero e lo portarono al lago Muhazi insieme ad altri uomini, con le braccia legate dietro la schiena. Mamma andò a badare alle mucche e io seguii papà da lontano. Vidi che lo buttavano nel lago, dove noi andavamo sempre a fare il bagno. Mio padre sapeva nuotare, ma con le braccia legate era difficile. Lui però non morì. Ricomparve a casa in piena notte tutto insanguinato, forse col buio era caduto. Mia madre accese il fuoco e scaldò dell’acqua, papà si lavò tutto, si cambiò gli abiti e scappò. Qualche tempo dopo ritornò, ma gli assassini tornarono anche loro e non lo abbiamo più rivisto”.

Quando andavo a letto non riuscivo a dormire, pensando a mio fratello in prigione. Una mattina presto entrarono in dormitorio e arrestarono un seminarista. Erano tempi brutti. Quando finalmente, nel ’93, furono firmati gli accordi di Arusha, ci dicemmo che forse l’inferno era finito. Invece poi l’inferno è venuto per davvero”.

Al mattino, la coppia che ci aveva ospitato mi guardava in un modo che non mi piaceva. Il marito uscì, poi rientrò, dicendo che la casa di Isaïe, mio padre, era stata attaccata, che ci stavano cercando e avrebbero ucciso anche chi ci avesse nascosto. Aggiunse che la fidanzata di mio zio Jean-Marie Vianney era stata ferita a colpi di machete dai miliziani, per farle rivelare dove si trovava mio zio. Erano furiosi perché, attaccando la nostra casa, non avevano trovato nemmeno lui, che era tra le persone ricercate per essere uccise nel modo più atroce”.

Dal 27 marzo è in libreria La famiglia. Una storia ruandese di Pietro Veronese (Edizioni E/O 2024, pp. 208, € 18).

Pietro Veronese è un giornalista, ha lavorato per trent’anni a Repubblica, dove è stato inviato speciale e caporedattore Esteri.

Tra aprile e luglio del 1994, si perpetrava in Ruanda il massacro dei Tutsi, provocando la perdita di un milione di vite. Si trattò del più atroce crimine contro l’umanità della seconda metà del XX secolo.

I giovani sopravvissuti a tale tragedia, rimasti soli e profondamente segnati nel loro essere, concepirono un modo unico di continuare ad esistere costruendo nuove famiglie, unendosi e designando tra di loro figure paterne e materne che assumessero i ruoli dei familiari perduti.

Uno di questi legami affettivi si formò tra individui che poi si sono trasferiti in Italia. Oggi, a distanza di tre decenni, nove di loro hanno scelto di raccontare in prima persona le proprie vicissitudini, componendo un racconto intriso di dolore, tragedia, rinascita, amore e speranza.

Questo straordinario documento offre uno sguardo autentico per comprendere e conservare questa memoria indelebile.

Una storia che racconta la drammatica violenza della guerra e la speranza di un gruppo di ragazzi che hanno perso tutto alla ricerca di una nuova vita.

Carlo Tortarolo

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Scusa se parlo piano, oggi le bambine sono rimaste a casa. Stanno dormendo e non voglio svegliarle.

Io sono arrivata in Italia tante volte. La prima fu a dicembre 2001. La famiglia che mi aveva accolta stava in Alto Adige. Il termometro era sotto lo zero. Tutto mi sembrava strano, fred – do e triste. Mi ero aspettata sole e fiori e mi ritrovavo in mezzo alla neve, che non avevo mai visto prima. Ero contenta di essere uscita per la prima volta dal mio Paese, ma mi sentivo persa: vedevo tutto enorme, nuovo, troppo veloce. Ebbi un tale rifiuto che non avrei mai immaginato che un giorno l’Italia sarebbe diventata la mia seconda casa.

Con le persone che conobbi, invece, fu da subito diverso: mi accolsero con affetto, e sarò sempre riconoscente. Ero venuta su loro in vito per una vacanza, ma tutti mi dicevano di fermarmi a studiare. A me sinceramente sembrava una cosa impossibile: non sapevo nemmeno una parola di italiano.

Mio padre aveva studiato in Belgio e in Olanda. Ci aveva raccontato tante volte di com’era la vita in Europa. Nella mia mente mi ero fatta un’Europa tutta mia, ma aveva ben poco in comune con quella che vedevo ora.

Poco dopo Natale, la famiglia altoatesina che mi ospitava mi propose di convertire il mio visto turistico in un visto per motivi di studio. Io però a Kigali frequentavo già il secondo anno di Sociologia, mentre in Italia l’anno accademico era qua – si a metà. Colsi questo pretesto per rifiutare e me ne tornai in Ruanda dopo un mese.

In Ruanda avevo un lavoro, studiavo, avevo la mia vita. Non mi mancava nulla e non sarei proprio voluta partire. Mia madre mi spingeva a farlo, ma da un certo punto di vista il fatto che io mi rifiutassi non le dispiaceva, perché lo stipendio che guadagnavo lavorando per una compagnia di assicurazioni era molto utile a casa. Dopo il genocidio anche la mia famiglia ha dovuto aiutare tanti bambini che non avevano più i genitori, una cosa di cui ancora oggi sono fiera e che mi ha dato una quantità di fratelli e sorelle non biologici. Ma i soldi non bastavano per tutti.

Le persone che conoscevo in Italia non si diedero per vinte e continuarono a insistere perché tornassi. L’italiano, dicevano, non sarebbe stato impossibile da imparare. Arrivarono a promettermi una borsa di studio per me e un aiuto per mia madre. Non ebbi più scuse.

A dicembre 2002 tornai per un trimestre a studiare l’italiano. Questa volta accettai di cambiare il visto turistico in un visto per motivi di studio. Conobbi anche due meravigliose famiglie a Vetralla e a Grotte Santo Stefano, in provincia di Viterbo. L’accoglienza fu ancora una volta stupenda, ma dopo tre mesi decisi di nuovo di tornare a Kigali, con l’idea di finire l’ultimo anno di università.

Rientrai quindi in Ruanda e ripresi il lavoro e lo studio, ma il destino non era d’accordo. A giugno fu annunciata la chiusura della facoltà che stavo frequentando. Dovetti riconsiderare l’idea di accettare una volta per tutte l’offerta di studiare in Italia.

Questa volta volevo stare a Roma: faceva meno freddo ed era il posto giusto per continuare Sociologia. Iniziai l’università a ottobre del 2003. Mi avevano parlato del Collegio Giovanni XXIII: con una lettera di presentazione del nostro vescovo sarei riuscita a trovare un posto lì. Seppi che al collegio c’erano altri due ragazzi ruandesi e studenti di cinquantadue nazionalità.

Al Giovanni XXIII passai i cinque anni di studi universitari, i primi due in camera da sola, gli altri con la mia nuova amica Fides, burundese. I primi due anni furono: collegio, università, estate in Ruanda. Altro non sapevo. Conoscevo Roma Termini, largo Argentina, piazza Venezia e basta. Per le prime vacanze di Natale andai in Belgio e in Norvegia a trovare zie e cugini.

Nel 2005 andai in Ruanda. Nel 2006 ormai ero romana.

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