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Michel Vieuchange anteprima. Smara. Taccuni di viaggio

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Paul Bowles aveva definito Smara «un terrificante pellegrinaggio nel regno del Nessun luogo». L’autore l’autore de Il tè nel deserto, infatti, scrisse che «Per quanto abbia letto ormai mezzo secolo fa il diario di viaggio intitolato a quel nome, ricordo ancora perfettamente ogni terribile momento di quella partita a scacchi che ha luogo fra Michel Vieuchange e il suo destino».

Michel Vieuchange, un figliod ella borghesia imprenditoriale di Nevers, progettò un viaggio a Smara – la “capitale sconosciuta dei Mauri” – più che altro come prova iniziatica a cui sottoporsi per temprarsi e prepararsi a quel faticoso viaggio che è la vita. La città, posta oltre la catena dell’Atlante, a trecento chilometri nel deserto del Sahara, era all’epoca posta in uno degli angoli della terra ancora inesplorati. Così, Michel partì nel settembre 1930, camuffato da donna berbera perché la città santa di Smara era proibita agli stranieri – insieme a una piccola carovana di berberi – tre uomini e due donne – per quello che si dimostrò rapidamente come ben altro da un semplice viaggio turistico. Subito, infatti, le giornate si dispiegheranno come un’estenuante sequenza di difficoltà, incontri inquietanti, sete e ferite, pericoli portati dai predoni. In fondo al viaggio, non compare solo il raggiungimento della meta, ma anche la stanchezza estrema, in fine la malattia e la morte che sopraggiungeranno sulla strada del ritorno. 

Il testo di Smara, quindi, si rivela – sorprendentemente – come altro da quasi tutta la letteratura di viaggio, come una imprevista rivelazione di asprezza e di sofferenza, una parabola di due mesi e mezzo scandita dalla scrittura su taccuini e dagli scatti fotografici che, in fin dei conti, non testimoniano solamente il viaggio in quanto tale ma anche una lenta quanto inesorabile metamorfosi interiore. A consentire la scoperta di Smara. Taccuni di viaggio è la casa editrice Settecolori, nella bella traduzione di Leopoldo Carra e in edizione numerata, con una preziosa introduzione di Antoine de Meaux.

Paolo Melissi


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I miei compagni di viaggio:

Larbi: un uomo semplice che fa regolarmente la sua preghiera, tiene il rosario, lungo la strada cammina solitario davanti, poco espansivo.

Bous, la donna. Si è abituata presto a vedermi, a sistemarmi lo haik; spiccia, lavoratrice, allegra, chiacchierona.

Fatima o semplicemente Fatma: una brava ragazza grassa, timorosa, ignorante (crede cha la mia macchina [fotografica] sia un’arma), taciturna; non osa toccarmi, guardarmi.

Chibani: una vecchia volpe, infaticabile, cotto dal sole, quasi nero, nodoso, col nasone; il turbante posato in modo buffo sulla testa; allegro, energico.

Il Mahboul: genere Figaro o piuttosto Gilles arabo – scoprirò a chi assomiglia – bonaccione, lingua sciolta, gli piace farsi servire, compiaciuto del suo ruolo; tormenta di continuo la donzella; se la cava alla grande in qualunque situazione; si fa capire a gesti (descrizione del ciuco, ecc.), a volte spassoso. Tutti, tranne forse Fatima, contenti di camminare, di travestirmi (collana); si divertono come bambini a radermi, a guardare gli oggetti, a schiacciare il pulsante [della macchina fotografica].

(…)

L’attesa non si è prolungata eccessivamente, poiché ci siamo messi in cammino stamattina alle 4 o alle 5. Trascorso fine serata, ieri, coricato o seduto, con la schiena rivolta alla città per non essere visto dai carovanieri accampati contro le mura, se mi toglievo il velo dalla bocca. In tal caso, mi sistemo in modo che il velo azzurro si apra unicamente verso una parte del bled, sassi o cespugli, che posso abbracciare con una sola occhiata. Cenato appena…

Poi ci corichiamo per dormire al calar del sole. L’inizio della notte quando arriva il fresco è gradevolissimo. Lasciamo che i piedi scalzi spuntino dalle vesti. Sulla montagna, a 1 o 2 chilometri, un rinomato marabutto al quale ovviamente non si può far visita. Ma il silenzio è così perfetto che ci arrivano voci di uomini salmodianti invocazioni e canti religiosi. Sembrano quasi i canti dei cristiani, e che impressione questa gravità, questa fede sicura, priva di dubbi, che mantiene gli uomini di questo paese in una serenità come quella della gente di provincia in Francia, una mancanza di curiosità per ciò che avviene lontano, forse un pericoloso fanatismo.

Questo dà la misura della mia, di lontananza, io orecchio indiscreto che udiva dei canti mentre i fedeli erano sicuri di trovarsi fra soli credenti. Quel canto condensava tutta la mia lontananza, tutta la mia separazione, tutta la mia profonda incursione in un paese sicuro di sé, libero. Era come se stessi violando un segreto, come se stessi ascoltando una cosa proibita. E forse è per questo che l’assaporavo tanto, che ci trovavo tanto fascino, tanto mistero. Come diventava ricca di mistero tutta la notte, tutta l’ombra! Come mi tenevo cara la mia veglia, unico straniero, unico escluso da tutto questo, unico in grado di ascoltarlo in quel modo, come una specie di rivelazione, di segreto sorpreso, di cosa rubata – un semplice canto nella notte! La notte in sé è stata così fredda, così umida che non ho chiuso occhio (tutti, a turno, dovevano stare svegli a causa dei briganti; in realtà, questo succedeva negli accampamenti vicini, non da noi), così fredda che ero arrabbiatissimo con il Mahboul, il quale si era tenuto la sua bella gellaba; così fredda che pensavo a un letto tiepido, a un corpo amato a contatto con il mio, invece di quelle donne che mi stavano appiccicate in maniera tanto indiscreta, tanto rude – ispirandomi un certo disgusto.

(…)

Non rileggo quello che ho scritto stanotte. Ma so che non è un granché: la stanchezza avvilisce, come la povertà. Dopo il gebel, queste montagnette da attraversare. Stavolta con lo sceicco Reguibat in sella. Non so dove sedermi per non urlare e cadere. Prima di Tiglit incontrato un uomo. Ci fermiamo a 50 metri, faccia a faccia, gli sceicchi con il fucile in mano.

Ci osserviamo. Si passa. L’uomo si dilegua tra i cespugli. Verso le 2 arriviamo a Tiglit, chiusa tra i suoi monti con i fianchi solcati da increspature strane, sinuose. Resto sdraiato a 500 metri dalla città insieme al Mahboul, mentre gli sceicchi vanno dallo sceicco di Tiglit. Dormito. Svegliato un’ora dopo da Lhassen. Percorso a fatica quei 500 metri di ciottoli e pietre tra le case. Stradine in salita. Casa di Lhassen. Uscito lui, le lettere. Tutto questo lavoro – Smara non raggiunta, per una spina!! Questa conoscenza rivelatrice che si acquisisce della terra: tante valli, tante rocce – della sua vastità incommensurabile rispetto all’uomo. Se rifacciamo la stessa strada, stilerò una relazione, un tracciato topografico (con fotografie) ottimo, credo. Se no traccerò un altro percorso. Lasciar perdere il pittoresco, privilegiare l’utile. Quel monte, quel sentiero, quel passaggio. Devo dire quanto è stato bravo il Mahboul, ha fatto un lavoro straordinario

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