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Michele Ruol. Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia

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Cosa resta dopo una disfatta? Che la democrazia del fuoco non faccia sconti, al pari del lutto, è cosa ben nota a tutti. Quel che resta dopo il loro passaggio è solo cenere, silenzio, un accatastarsi di cose scampate alle fiamme, al dolore che «ti abbatte, poi ti aspetta». Ed è come se gli oggetti e solo quelli, in qualche modo possano contenere una memoria inscalfibile, cristallizzata, mentre le persone attorno, i cari rimasti (nello specifico qui, una Madre e un Padre che per tutto il romanzo saranno chiamati tali), vagano alla deriva di un casa che ha perso ogni calore, ogni appiglio, scinti come nuclei di una fissione i cui frammenti si respingono alla violenza della medesima carica negativa.

Un albero centrato in pieno con l’auto dei genitori, in fuga da un incendio, Maggiore e Minore muoiono sul colpo, l’amico resta gravemente ferito, impossibile contenere la voragine di una notte in cui tutto si rompe.

Michele Ruol ci racconta di un dolore che conosciamo e temiamo: la perdita improvvisa delle persone a noi più care. Nulla di nuovo sotto il sole verrebbe da pensare, non fosse che il suo modo di trattare la ferita prende vita da una prospettiva ben diversa da quella a cui siamo abituati: Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è un’apologia della perdita narrata dal punto di vista delle cose.

Si parte da una cornice d’argento che ritrae due fratelli sorridenti, la foto al suo interno è la stessa che verrà usata per la lapide e da qui in poi saranno novantanove gli oggetti che seguiranno nelle pagine, novantanove frammenti di un vissuto sparso tra gli spazi della casa e quella maledetta automobile in cui il peggio s’è compiuto, novantanove briciole da ricomporre, attraverso un itinerario famigliare frammentato nella geografia domestica di una dimora che pare sospesa nel tempo del ricordo.

«Però a guardare bene, la sabbia si sposta, ma non se ne va mai. Basta girare la clessidra e il tempo riprende a scorrere.»

Dal pentolino per scaldare il latte al raschietto per rimuovere il ghiaccio, ogni capitolo rimanda a una situazione passata: episodi lunghi quanto un flashback, un déjà vu, un sogno vivido, tracciati con una penna il cui movimento chirurgico non lascia spazio ad inutili struggimenti. Le parole descrivono forme, dimensioni, materiali, il tono si spoglia di ogni superflua saturazione, scarnificando sino alle ossa una prosa che in certi frangenti sfiora il reportage giornalistico. Il senso di spaesamento iniziale è voluto, funzionale: l’intimità va ricercata in quello spazio liminale tra significato e significante dove il narratore è un mero strumento atto alla rievocazione. Biglietti di concerti, scatole nascoste sotto i letti, chat con estranei in cui ciò che si era dato per scontato non è più tale e la bramosia di svelamento procede di pari passo con l’empatia (soprattutto) per quella Madre che lentamente ricompone pezzi di ciò che è stato.

Il sentimento nostalgico emerso da queste pagine muta presto in un anestetico dolceamaro che il lettore assorbe quasi per simbiosi, attraverso una narrazione in terza persona temporalmente scomposta ma dal disegno generale ben definito che si dispiega per frasi brevi, semplici, attraverso paragrafi che si esauriscono in meno di una pagina, dando vita a tranche de vie la cui una potenza emotiva si amplifica e riverbera oltre la conclusione del singolo capitolo.

Sia un vaso di ceramica bianca che si reinventa svuotatasche, o una scopa i cui cocci da spazzar via non sono solo quelli in frantumi sul pavimento, questo minuzioso panopticon della perdita si muove tra le stanze vuote di chi oggi, per sopravvivere, deve far pace con il proprio universo.

Non esistono scappatoie all’assenza, al senso di vuoto e per, quanto già si sappia, accettarlo è tutt’altra storia che raccontarlo ma forse, in questo ritornare, distruggendosi e ricucendosi, seppur in modi diversi, si può quietare lo strazio, provarci, afferrando la mano tesa di una nuova, possibile, prospettiva di riconciliazione.

«Alla fine del concerto Madre e Padre erano esausti, svuotati, grati al rito che in qualche modo era riuscito a metterli in comunione con quell’entità più grande che prende il nome di umanità e che, nel suo essere sconfinata, nel tempo e nello spazio, comprendeva anche Maggiore e Minore.»

Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è un esordio che porta luce e ossigeno alla narrativa contemporanea. Un romanzo coraggioso per stile e propositi, la cui pregiata caratura si forgia su un realismo pragmatico che ha il coraggio di affrontare a viso aperto il tragico rovescio di una famiglia che, nella perdita, ha saputo ritrovarsi. Ed è in questo sconforto collettivo che si vorrebbe tenerlo ancora un poco stretto al petto, a lettura conclusa, questo libro prezioso e devastante, per le corde che ha toccato, per il modo in cui l’ha fatto.

Stefano Bonazzi

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Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia

Michele Ruol

TerraRossa Edizioni

16,00 euro — 208 pagine

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