Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Tommaso Giartosio anteprima. Autobiogrammatica

Home / Anteprime / Tommaso Giartosio anteprima. Autobiogrammatica

Il mistero del parlare: “Se il linguaggio è anche ingranaggio, la lingua è anche corpo. È più libera di noi: trova delle soluzioni che a noi non verrebbero in mente. Le parole, loro sì ci vengono in mente – anche in senso sessuale. Catturare la parola giusta è un orgasmo. La lingua è una superficie scivolosa, luccicante di succhi, sferzante come un asciugamano bagnato negli scherzi di fureria”.

La riconoscenza per un passaggio: “La signora ringrazia, scende. Poi bussa, piano, al finestrino. Avrà dimenticato qualcosa, pensa Antonio. Abbassa il cristallo. La signora infila la testa: «Ma senta: allora non lo vuole, il pompino?»”.

La scrittura dei mortali: “Un immortale non scriverebbe, ha detto qualcuno. Forse scriverebbe di altri immortali: che in effetti in letteratura appaiono di rado, e quasi solo come personaggi collaterali. Demoni o dei pronti a tornarsene tra le nubi, magari dopo aver espresso invidia – se non per la morte – per la mortalità degli umani: per il loro destino limitato ma anche conchiuso in una forma, in un senso”.

È in libreria Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio (Minimum Fax 2024, pp. 440, € 19).

Tommaso Giartosio, scrittore, saggista e conduttore di Fahrenheit su Radio 3 è autore dei memoir Doppio ritratto (Fazi 1998, Premio Bagutta Opera Prima), L’O di Roma (Laterza 2012), Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea (Einaudi 2023) e della raccolta di poesie Come sarei felice. Storia con padre (Einaudi 2019, Premio Napoli).

L’Autobiogrammatica è un affascinante gioco di narrazione che esplora la vita come un percorso unico e condiviso, intrecciato con il linguaggio. Tommaso Giartosio esamina il legame segreto tra l’apprendimento del linguaggio e le complesse dinamiche della vita, esplorando la genesi dell’alfabeto, le relazioni familiari, l’amore, l’educazione, l’amicizia e il desiderio in un’Italia permeata da privilegi, pregiudizi e violenza. Attraverso questo viaggio, Giartosio esplora la lingua come radice della coscienza e del mondo, rivelando la sua importanza nella definizione delle identità, degli affetti e nell’attribuire significato alle esperienze vissute. La lingua diventa il veicolo essenziale per narrare la storia, una sostanza che permea e definisce il racconto stesso. Infine, l’autore riflette sulla babele delle nostre esistenze e di quelle che ci hanno preceduto.

Si esplora il senso della parola: “La parola parola viene dal latino parabola, che indicava le parabole evangeliche e poi ogni tipo di esposizione. Quindi non sono le parole a formare i discorsi; al contrario, esse derivano dai discorsi in cui stanno incastonate; dai ragionamenti e racconti più antichi, autorevoli, immutabili. Per questo dobbiamo sceglierle con attenzione, e se necessario cambiarle”.

Troviamo la forza del dolore e dell’amore in una sola frase: “Oggi mia madre è morta. Oggi scrivo questa frase, che può essere vera solo oggi. Rende preziosa questa giornata, l’ultima in cui è stata viva”.

Autobiogrammatica è un percorso ricco che sfiora numerosi riferimenti letterari come Il libro nero di Lawrence Durrell ma anche Hugo Pratt, Calvino, Cortàzar ed Ezra Pound fino ad arrivare a Il Libro dei mutamenti (I Ching), un classico della cultura cinese.

Questo avvincente e approfondito viaggio ci spinge a riflettere sulla necessità di plasmare la nostra vita per crescere e ci invita a interrogarci su chi saremmo senza il nostro unico e personale linguaggio.

Carlo Tortarolo

#

Un viaggio verso Sud

La pasta al forno con i peperoni era croccante quasi quanto la parola croccante, era untuosa come untuosa. Tu che leggi, pronuncia queste due parole a voce alta prima di proseguire, così sappiamo di cosa stiamo parlando. Fatto? Allora andiamo.

Era sera. Antonio serviva i maccheroni, noi altri tre sorseggiavamo del Rapitalà, gli ospiti stavano parcheggiando, e in tavola c’erano dei piatti di coccio grezzo dipinti a grandi fiori arancioni: perfettamente brutti in quanto immagini, ma in quanto realtà perfettamente belli.

Con Chiara e Antonio avevamo preso in affitto, io e Carlo, una casetta al mare in Sicilia. Chiara era l’amica che ci aveva fatti conoscere tre anni prima; ora, innamorati e fieri della nostra unione, eravamo una coppia consolidata (che espressione terribile, da lezione di chimica o fisica, qualcosa da desiderare e da temere e di cui soprattutto illudersi!). Proprio per confermarci tali, ma anche per smentirci tali, avevamo voglia di esplorare luoghi nuovi; però portandoci dietro Chiara come una prova d’acquisto, e scegliendo – tra tutte le parti d’Italia a noi ancora ignote – giusto la regione in cui lei era cresciuta. Non ci ero stato quasi mai, in Sicilia, ma soprattutto non l’avevo pensata. Quando sentivo la parola Sicilia dovevo subito pronunciare sottovoce, o almeno pensare a alta voce, le parole: triquetra insula. Era la definizione offerta nel mio primo libro di esercizi latini, prima media, capitolo sulla prima declinazione. La Sicilia, l’isola triangolare. La pronunciavo con due accenti sdruccioli (tríquetra ínsula), sbagliando – si dice triquétra; ma lo sbaglio rendeva meglio quel nonsoché di arduo, inerpicato, distanziante, sdrucciolevole, che sentivo nell’idea di Sicilia.

I nostri amici ci avrebbero raggiunti dopo due settimane. Noi due eravamo arrivati da soli, appena scoccato luglio, quando il traghetto da Napoli ci aveva deposti su un molo di Palermo. Mi aspettavo il trattamento mediterraneo completo, vicoli e riflessi marini e carretti di pescato e balconi con donne che urlano nomi di ragazzini; invece avevamo attraversato una città di palazzine moderne scrostate e mercati semivuoti, ai piedi di una montagna bruna. Per il mio momento di colore locale avevo dovuto aspettare la sera, in un ristorante allestito nel cortile di un palazzo nobiliare. I camerieri volteggiavano tra i grandi tavoli affollati e le stelle filanti delle sigarette, portando mazzi di calici e plateau di frutti di mare; la notte brillava di un lucore dorato; sembrava un film in costume. Ero appagato ma non convinto. Di mattina eravamo ripartiti. Nella Punto azzurra comprata pochi mesi prima non avevo voluto l’aria condizionata, mi sembrava un lusso immeritato. Ora ne pagavamo lo scotto (è il caso di dirlo), tenevamo i finestrini aperti ma Carlo non poteva appoggiare il gomito fuori, sulla portiera rovente. Stringeva con due mani l’atlante stradale e non appena accendeva una sigaretta il vento se lo ripigliava, strappando via le pagine.

Del resto l’atlante non ci serviva. La strada era una sola, una statale larga e polverosa che sarebbe stata un’autostrada se solo si fosse applicata. Macchine poche. Dopo Alcamo c’era un deserto. La parola deserto mi affiorava di scatto alla mente, come un gendarme che ha lungamente atteso nella sua garitta la particolare combinazione di fattori – afa, luce abbacinante, ore bruciate, stoppie, estensione di spazio vuoto, pungente intensità di pregiudizio – che permette di puntare la baionetta e interpretare come deserto una ridente area agricola punteggiata di casolari, in una provincia che ha la stessa densità di popolazione di quelle di Mantova o Pisa. Poi c’era una cittadina di trentamila abitanti: attraversata in tre minuti. Poi un altro deserto (o era lo stesso?), poi un paese di diecimila, poi ancora deserto. Ogni volta sembrava di essere arrivati, ogni volta si incrociava strade comunali che ripetevano le stesse indicazioni in direzioni diverse; eravamo prigionieri inconsapevoli di quel medioevo tra la diffusione delle rotatorie e la comparsa del navigatore satellitare. Cercavamo indizi nel paesaggio, ma da ogni lato ondeggiavano le stesse colline appiattite dal calore, mai un passante, un uccello, nulla. Sognavo una sovrimpressione che mi indicasse pazientemente, lungo lo spartiacque ottuso tra i morbidi bacini di due fiumare, i sentieri di migrazione, i confini smussati delle controversie baronali, gli itinerari delle armate arabe o garibaldine che avevano passeggiato lì come pulci sulla dorsale scabra di una balena. Volevo un acetato da mettere e togliere, mettere e togliere… Invece mi si presentava solo uno spazio senza nomi.

Pubblicato per gentile concessione di Minimum fax

Click to listen highlighted text!