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Paolo Scardanelli anteprima. L’accordo. Un posto sicuro

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La cognizione del dolore: “Il dolore è la vera, unica essenza dell’arte. E cos’è l’arte se non il modo di renderlo comprensibile a noi medesimi e ai nostri simili senza pelli né code, ridicolmente eretti. Ecco, io ero allora, in quel bagno lungo e poco illuminato, mentre aspettavo che l’acqua calda empisse la vasca, tremante, convalescente, nudo, indifeso, io ero l’immagine che Caravaggio e Bacon per una vita hanno provato disperatamente a dipingere: l’immagine trasfigurata ma pura e semplice dell’insensato dolore dell’esistenza.”

Attimi di meditazione: “L’aria è rarefatta; intensa punge le narici; attraverso esse risale sino ai centri del sistema nervoso. Collettivo. Tutto intorno è chiaro; perfettamente illuminato. Mi sento bene, leggero, illuminato. Beato. Lo sguardo si spinge sino ai limiti estremi; nulla lo contiene. Solo la mente stessa. L’aria è forte ma senza affezione sulla mia sensazione corporea. Sto seduto, magnificamente, ammiro tutto, sento tutto, ogni cosa, percepisco ogni atomo. So che non può durare ma non m’importa”.

Il desiderio di conoscere: “Leggevo La gaia scienza che mi ero portato con me da Firenze; mi beavo di ritrovare nella prima parte riguardante la convalescenza dell’autore similitudini di sentire con un tale titano del pensiero. Mi ritrovavo nelle sue riflessioni come un uccello sperduto nel suo nido, e pensavo che quelli erano i miei eroi, i miei veri padri, coloro nella cui ombra avrei potuto crescere e affrontare l’unica sfida che aveva senso vivere: quella della conoscenza”.

Un momento di sconforto ribelle: “Guardo il lucore del mattino e penso che quello è l’ennesimo fallimento di una vita destinata al fallimento. Inevitabilmente. Con buona pace di mio padre. Al diavolo, concludo: è la mia vita; non mi rompete i coglioni”.

È in libreria L’accordo. Un posto sicuro di Paolo Scardanelli (Carbonio 2024, pp. 260, € 16).

Paolo Scardanelli (Lentini, 1962), geologo e scrittore. Con Carbonio ha pubblicato la saga de L’accordo – Era l’estate del 1979 (2020); I vivi e i morti (2022); L’ombra (2023) – di cui Un posto sicuro è il quarto volume, e In principio era il dolore. Un Faust di meno (2022).

Una villa abbandonata sul Mont Sainte-Victoire, la montagna di Cézanne, rappresenta il luogo prediletto dove Bruno e la sua amata Greta potranno finalmente riunirsi. Tuttavia, su quella pacifica dimora, dove la coppia sta per immergersi nella vita campestre in attesa dell’arrivo del loro piccolo, incombe una maledizione, preludio dell’imminente tragedia.

Paolo Scardanelli torna con il quarto capitolo di un romanzo ricco di azione, armonia e saggezza, seguendo la continua ricerca di significato del suo protagonista e alter ego Paolo: una narrazione che si sviluppa sinuosa attraverso lo spazio, guidata dalla chiarezza del pensiero e dalla potenza dei ricordi. Con stile colto, ardito e intriso di poesia e di affascinanti richiami filosofici, Scardanelli esplora le luci e le ombre dell’esistenza, comunicando dritto al cuore del lettore.

L’autore ha una narrativa mai scontata, diretta e profonda, il suo è il pensiero forte di un’anima inquieta che ci regala molte belle idee in un solo libro.

Carlo Tortarolo

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Mattina.

La bocca è impastata. Il sonno confuso. Il letto troppo morbido. La mia memoria… frastornata.

L’encefalo talvolta ci trasmette segnali contrastanti, figli dell’intermittenza del cuore. Sorta di deviazioni consapevoli dalla nostra linea d’ombra. Amiamo, moriamo, una, cento, un milione di volte, riproponiamo alla nostra coscienza le ombre che popolano il nostro inconscio: mi manchi, come al deserto manca la pioggia. Siamo inevitabilmente linee di fuoco, accese dal desiderio, dall’essere, dalle necessità ontologiche. Ricreiamo mondi, scompariamo, ci sotterriamo sotto grattacieli d’acqua, abbiamo nostalgia di noi stessi, Narcisi impenitenti.

Il 1990 si sovrappone al 2016: io sono lo stesso, più determinato e forte ma con meno abbandono poetico. Miro al sodo, all’obietto, mentre quel medesimo me più giovane amava perdersi, sentimentalmente, nei meandri di sé, negli amori perduti, nelle missioni che mai avrebbe portato a termine. L’io d’oggi non può permettersi indugi: cerca di riconnettere, sartorialmente, legami definitivamente perduti ma vivi grazie alla sussistenza della memoria.

Mi manchi, ma mi alzo, sciacquo il volto in una mattina fresca di tarda estate. Guardo l’iPhone: sei e trenta. Cazzo: alba. Necessario. Troppo Armagnac la sera prima; devo aver poggiato la testa sul cuscino troppo soffice troppo presto. Meglio così: comincerò la ricerca prima.

La bocca è impastata, ho bisogno di un caffè, forte.

Scendo, la scala scricchiola, sono il primo cliente, monsieur M è l’unico sveglio, il profumo fragrante del caffè promana dalla sala da pranzo, ora di colazione, aperta. La luce è radente, dorata. Vorrei essere con una giovane donna. Dio, come lo vorrei. Come sempre. Desiderare è lecito, oltre i legami. I legami ci legano. I desideri ci allungano la vita. E io…

La luce è benedetta: sorrido. Dio ha donato a quei luoghi un’intensità unica. La figlia emerge stanca dalla cucina; porta con sé pane tostato, marmellata casalinga, burro scuro e una brocca di caffè; sorride forzosamente. Se perdi la fede in te, sei fottuta; lei probabilmente lo è da lunga pezza, da quel tardo agosto del 1990. Tutto quello che lei sa è che non ci saranno più altri giorni in cui giocare con sé medesima. Non come quelli. Quelli della sua gioventù. Tutti noi dovremmo avere il coraggio di non temere di vivere ciò che ci è stato lasciato in eredità.

La guardo: gli occhi sono stanchi e rassegnati. Mi sovviene la figlia del tenutario in un’estate calda e ventosa precedente: Santorini 1984; Francesca e io. Una colazione, presto, non così, io che rischiaravo lo sguardo intorpidito da una notte d’amore intenso, lei che sapeva che non sarebbe sfuggita al suo destino, ma che mi guardava, carezzando il nostro di destino, come un’amica che fondasse nell’Egeo le radici comuni. Non l’ho dimenticata. Né quella mattina. Né il destino a venire. Né i silenzi, gli abissi, le paure, gli abbandoni, gli infiniti ritorni che ci consentono di sperare d’esserlo, immortali.

Finisco solitario la colazione beandomi del flusso d’aere dorato che mi scalda il sembiante. Saluto sommessamente. Lei accoglie l’ennesima tacca sull’asse dell’esistenza. Rivederci stasera non sarà lo stesso che dopo ventisei anni. Ne siamo entrambi desolatamente coscienti. Torno nella 312 a lavarmi i denti, guardo il telefonino, sette e diciassette. Scendo, saluto con un cenno il padrone, esco sulla provinciale, svolto a sinistra, comincio ad andare a passo veloce, poi m’accorgo d’una mancanza, torno sui miei passi, rientro, m’avvicino al desk, avez-vous trois pommes, s’il vous plaît, monsieur?

Je vais voir, attendez, s’il vous plaît…

Torna con tre succulente mele rosse, le depone sul desk, e allora, solo allora, m’accorgo che a quel tempo, nel tardo agosto del 1990, sapevo che sarei tornato, che questi giorni sarebbero tornati, che le vie imperscrutabili dell’esistenza m’avrebbero ricondotto a uno dei luoghi d’elezione del mio essere poetico, del mio essere tout court, dell’unico che mi avrebbe posto in una condizione di equilibrio tra necessario desiderio e silente risposo. Questi giorni sono tornati, tornano e io stesso me ne dimentico, e mentre me ne dimentico m’accorgo, col retrovisore della coscienza, che quando tutto sarà finito, io ne serberò una memoria speciale che m’accompagnerà nello scuro giorno infinito della mia personale Monade.

Non smetterò mai di sognare, neppure quando l’orologio segnerà un quarto alle dieci.

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