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Paolo Melissi inedito. I pazzi gabbiani del Tevere

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Ci sono ancora quelle due signore corpulentissime infagottate infazzolettate che sembrano matrioske alla Stazione Termini con due carrelli-carrozzina carichi delle cose loro di signore corpulentissime – che si scaldano le mani a un bidone braciere acceso con la fiamma alta – e i gabbiani con la voce demente che irradiano il mattino. Bianchi pazzi gabbiani dal Tevere si spingono ovunque, anche in cima al Vittoriano volteggiano e schiamazzano

Poi, in via Nazionale incrocio un uomo con la barba riccia avvolto due volte in un cappotto una sciarpa e una coperta come scialle – che porta come una collana il boccaglio di una maschera da sub, proprio il boccaglio di una maschera da sub: l’ha legata con una cordicella – collana che scende sul petto – e tu vedi questo uomo – stai camminando per via nazionale con le tue idee, i tuoi preconcetti, le abitudini suggerite dai soliti meccanismi, il solito vortice frullato della rete neuronale – e vedi allora un boccaglio da sub attaccato a un uomo ricciobarbuto con lo scialle e ti sembra (almeno ti sembra) che le coordinate (che sono preordinate) si siano di colpo scoordinate.

A tarda sera, i pazzi gabbiani del Tevere berciano ancora striduli borborigmi insensati, e forse a causa di questi stridii – non ti è dato di sapere come – s’è risvegliato un ricordo:

Qualche anno fa, nel caldo notturno di un agosto adriatico, mi fu raccontata questa breve storia che può, al limite, contenere anche un piccolo ammaestramento.

Due suoi amici stavano percorrendo in auto la strada che passa a poche centinaia di metri dalla casa in cui ci trovavamo. Era mezzogiorno passato, faceva un gran caldo e il sole picchiava sui muretti bianchi lungo la strada e sull’asfalto bollente. Superata di poche centinaia di metri la nostra casa, i due amici videro attraversare la strada una donna che indossava un lungo abito bianco e che stringeva nella mano destra un piccolo parasole. In dialetto, i due amici si dissero che quella donna doveva essere proprio sciroccata per andarsene girando sotto quel sole e con quell’assurdo ombrellino. La macchina superò la donna, e gli amici dopo pochi minuti furono in paese. Poi, a uno di quei due amici, capitò di sentire questa breve storia.

Molti anni prima, vicino a quella strada, una giovane donna era morta in un pozzo – da quelle parti, in Puglia, di pozzi ce ne sono tanti e profondi – dopo, molti l’avevano vista camminare lungo la strada tutta vestita di bianco.

Da ciò si possono evincere due cose.

La prima è che le storie sono come cerchi concentrici sull’acqua: si irradiano partendo da un piccolo nucleo dinamico, ingrandendosi ed espandendosi sempre più lontano. La seconda è che se si vede una donna camminare d’estate tutta vestita di bianco con un parasole non è obbligatorio pensare, come prima cosa, che sia sciroccata.

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