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Maria Grazia Calandrone, Giardino della gioia

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di Jean-Charles Vegliante

Un libro corposo, complesso, composito, conturbante, di poesia forse scomoda, spesso giocata sull’orlo della prosa – non della cosiddetta prosa poetica, anzi della prosa giornalistica, con una certa attrazione a volte per la cronaca nera. Uno stralcio, scelto per la quarta di copertina, recita: “Siccome nasce come poesia d’amore, questa poesia è politica”; quanto è messo anche all’inizio come epigrafe della raccolta. La quale va considerata, credo, nel suo insieme o costrutto, in 9 sezioni o capitoli: il poemetto “Io sono gli altri”; Giardino della gioia; Intelletto d’amore; Tempo reale (compreso il poemetto “Le case infinite”); Il disamore; SpamPoetry; Il puro esistere; Nel sogno della materia; Rosso Roma. Come appare già dai titoli, un’oscillazione continua dalla semplice pietà all’amore all’odio (o disamore), e forse dalla storia – pubblica o privata – al discorso ipertestuale, alla cronaca e all’irrilevanza delle escandescenze elettroniche (spam e altri rumorii del social). E così le forme, dal grezzo collage all’emergere di ritmi incorporati e fatti propri da sempre (endecasillabi e doppi settenari, decasillabi manzoniani, novenari pascoliani, ecc., senza dimenticare alcune parole-versi di matrice ungarettiana), in strofe dal dettato vagamente ermetico:

Siccome nasce

come poesia d’amore, questa poesia

è politica.

                               (Contro l’esilio, p. 67).

Politica senz’altro, sì, come una volta si diceva che tutto è (giustamente) politico, questa raccolta di Maria Grazia Calandrone. Ove un sacrosanto sdegno per alcuni scandali assoluti e regressioni di anni recenti o recentissimi – da quando si è potuto sentire per le strade di Roma vammorìammare (p. 177, “all’indirizzo di un ragazzino nero”), per esempio – riesce a non fare scomparire del tutto quella che una volta si diceva poesia, ossia parola nuova “en avant, non prevedibile (non anticipata dagli algoritmi poetici dell’IA) e sganciata dalla doxa dei canali mediatici dominanti. Mettiamo, come allegorico sudario di pietas:

Il sudario è deposto per pudore

sul volto, perché quel volto smetta di finire

sotto i nostri occhi. Così vorrei

che le parole […]

                            (Poesia-sudario per Genova 14 agosto 2018, p. 79),

seppure – da molti anni ormai – “in Italia si può scrivere in versi o pseudo-versi persino il verbale di un consiglio d’amministrazione” (E. Montale, dichiarazione inedita in: Poésie 1 – Ossi di seppia / Os de seiche, tr. P. D. Angelini, Paris, Gallimard, 1966). Ma lampi di viva sorpresa poetica ancora aprono spazi abitabili se non ameni, in quella notte oscura dello spirito:

La curva azzurra della provinciale

sulla terra invernale.

Una forma terrestre testarda

mastica lentamente

la poca erba ai bordi della strada.

                          (Una vita, p. 185).

Il pensiero corre allora a certe pagine di Mario Benedetti, e più in generale alle riflessioni di un numero recente dell’Ulisse (in rete) su “Saggi in versi, saggi poetici, lyrical essays: forme ibride e innesti nelle scritture contemporanee” (n. xxi, 2018).

Sarebbe indecenza quotidiana – a citare ancora il vecchio Montale – voler sostare in una qualche forma di elegia oggi. Troppo facile. La sezione degli affetti, Tempo reale (ove il titolo stesso dichiara a quale quota andrebbe inteso un “realismo” letterario), di cui la Poesia-sudario fa parte, non indugia del resto solo su “affetti” privati, ma allarga la visuale al poemetto-reportage in Bosnia, paese visitato all’inizio del 2018. In “una guerra non finita”, cosa ci può dire la poesia senza vergogna – Hölderlin: “E perché i poeti in tempi d’indigenza?” – o senza mera ricerca dell’urto, della provocazione, del buzz? Perlomeno, se non si scelga di tacerne tout court, sia pure in modo provvisorio (Fortini: “Ma non lo devi rappresentare” – L’apparizione), e in attesa di meglio? Domanda difficile che l’autrice si è posta di sicuro e alla quale sarebbe difficile sottrarsi ormai, in Italia come altrove, anche a non volere di nuovo scomodare la memoria di Pasolini o di Roversi. Una minima osservazione di passata: per chi stia lontano dalle piccole patrie o matrie lì convocate, risulta assai arduo seguire i risvolti delle vicende evocate, sia pure con l’ausilio delle abbondanti note aggiunte al volume. Per citarne una: “Emotionally Focused Therapy EFT Externship” (p. 175), a proposito di “parole di Giulia Bertoni sulla notte del 18 giugno 2018”, in un testo chiuso dal pathos d’un brano da cut-up: “La mattina un giubbotto galleggiante era l’unica cosa rimasta” (endecasillabo a majori + decasillabo manzoniano). I tempi brevi del network super-allusivo, magari, non coincidono col chiaro tempo lungo e la riflessività della letteratura, sia essa pure fondamentalmente dialogica, polisemica e transitiva come in questo caso, che diremmo esemplare. E di tutto rispetto. Con una scelta, un montaggio, un’inquadratura comunque soggettive, e (ahimé) effimere. Con quel coraggio della nostra storia e attualità presenti, prive di scappatoia. Con, ancora una volta, pagine di vera “gioia”, carnale e luminosa, che Maria Grazia Calandrone ha dimostrato già di saper trovare e portare alla luce. Senza obsolescenza programmata, fortunatamente:

ogni cosa che ho visto di te, te la restituisco amata

per sempre, per sempre, per sempre

7-13 maggio 2016

                                   (pasto nudo, p. 129).

E così sia.

 

[Maria Grazia Calandrone, Giardino della gioia, Milano, Mondadori – Lo Specchio, 2019, pp. 200, euro 20]

 

Leggi anche questa recensione di Satispoetry scritta da Leonardo Guzzo.

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