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Alessandro Andrei. L’albero del Ténéré

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«Io sono quello che non ce la faccio», sbottava Learco Ferrari.

«Io sono stanco, anzi, stanchissimo. La vita moderna ha dei ritmi e delle pretese che tenerci dietro, io non ce la faccio. Oppure no.»

Era il 1999, altri tempi, altri umori eppure, leggendo il secondo romanzo di Alessandro Andrei (edito per Wojtek a seguito della vittoria del contest Fabrika), più volte mi è tornato alla mente l’indimenticabile incipit del buon Nori. Antoine Donizzetti non ha la dialettica umoristica del Ferrari, certo, pure i suoi guai sono di entità ben diversa ma quel senso di sconfitta, quel cinghiale invisibile della disfatta che grava sulle spalle nelle notti insonni, mi è parso di un peso assai simile.

«​​Avrei dovuto provare una vibrazione, l’ebbrezza della rivincita. Invece non c’era niente, nello stomaco, solo un altro baratro da riempire, si confondeva a un bagliore che accecava, la mia immagine riflessa sull’acqua che si svuotava un pezzo dopo l’altro, perdeva ingranaggi, un meccanismo che aveva iniziato a collassare impedendo il corretto funzionamento degli organi, dei nervi, del cervello.»

Donizzetti non è uno scrittore depresso come Learco ma un broker della Milano da bere: figura piacente, completo sempre in ordine, corri-corri tutto il giorno e nel taschino l’immancabile boccetta di ansiolitico sebbene il suo passato sia stato tutto un susseguirsi di smottamenti.

Di quell’infanzia parigina, nel quartiere di Pigalle, di quei pomeriggi clandestini, arrabattandosi tra furtarelli e vandalismo di periferia, Antoine oggi vuole ricordare solo il buono e quel buono risiede in un’unica persona: lo zio Ernesto.

Ernesto “Hervé” Furlan, ex membro di Prima linea latitante, per il giovane protagonista incarna tutto quello che un padre codardo e una madre distante non hanno saputo essere: un amico, un rifugio, un confidente ma anche, soprattutto, un fuoco capace di scaldare quell’esistenza così dannatamente ingiusta, imparziale, meritocraticamente sbilanciata a favore dei soli temerari, gli squali ribelli che delle regole si fanno beffa e dei valori morali, poltiglia da schiacciare sotto le suole.

È stato mio zio, l’uomo apparso a Boulevard Clichy solo un paio di giorni fa, a sistemarla su quel mobile. È lui che ha portato in questa casa lo spazio vuoto, la distesa di sabbia, l’albero senza niente intorno. E la voce di mio zio sembra leggere i miei pensieri. Si piega su di me. L’odore delle Gitanes gli ha impregnato il maglione di lana. So cosa sta per dire. Me lo ha già chiesto. Molto tempo fa.

«Cosa ci vedi lì dentro, Antoine?».

Alla fine degli anni ottanta però, Ernesto sparisce senza lasciare traccia. I postumi degli anni di piombo hanno posato ceneri le cui braci sono ancora tiepide e Antoine non trova spiegazione per quell’abbandono improvviso dell’unica persona di cui si fidava: il danno è fatto e la frattura lascerà a cicatrici indelebili.

A dare il colpo di grazia definitivo ci penserà il trasferimento a Milano, con la sua bordata adrenalinica e la routine fagocitante, cementificata da un’ascesa lavorativa a cui poco importa macchiarsi di qualche tiro basso pur di mantenere il proprio status quo.

Il gancio per un possibile ricongiungimento con il passato arriverà da Marrakech: la fredda notizia della dipartita dello zio, dopo vent’anni di cui se ne erano perse le tracce, spalancherà la prospettiva di un viaggio alla ricerca di quelle risposte mai ricevute ma i cui silenzi molto hanno influito sul destino del protagonista.

Chi ha già detto il precedente romanzo (Radio Ethiopia – Les Flâneurs Edizioni) non faticherà a riconoscere nella poetica di questo autore una coerenza tematica tra le due storie proposte nella sua parabola letteraria. Una narrativa del pellegrinaggio, verrebbe da chiamarla, dove il cammino si fa imperativo per una catarsi che passa attraverso l’indagine antropologica.

«Un venditore di melograno se ne stava seduto con le gambe a penzoloni su un carretto a tre ruote; uno stecco di legno stretto tra i denti; sul volto, segnato dal sole, l’idea che all’orizzonte non ci fosse nessuna decisione da prendere, né qualcosa da aspettare: solo indolenza, quella di chi sa che il tempo non ha nessuna importanza e, proprio per questo, riesce a piegarlo senza averne timore.»

I personaggi cari ad Andrei sono lupi solitari, deturpati, sghembi quanto le appendici stremate dell’iconica acacia che titola l’opera. Individui le cui storture testimoniano esistenze travagliate attraverso un arrancare perpetuo le cui ombre spesso sovrastano i punti di luce ma la cui tenacia li porta a sopravvivere e resistere.

Se Watts sosteneva quanto fosse più difficile mollare la presa, piuttosto che restare attaccati alle cose che ci provocano dolore, anche in questo viaggio dell’eroe non vi sono dunque guerrieri né villain, solo persone comuni che necessitano il compimento di un atto di coraggio altrettanto concreto. Una ricerca di libertà per Antoine a volte ingenua, irresponsabile, maledettamente rischiosa, che prende vita dal bisogno di un’indagine, ancor prima di una serenità, profondamente introspettiva.

L’epopea del viandante qui si muove dentro i confini di una lingua sempre elegante, fluente e sinuosa quanto il panorama che prende forma oltre le parole. Una voce che sa farsi da parte, saggiamente, nel momento in cui è giusto lasciar parlare i luoghi al posto dei personaggi. In questo si percepisce la maturità di una penna conscia della propria portata stilistica -anche quando scandaglia i flussi più sanguigni dell’intreccio- che sa dare giusto respiro ai comprimari senza relegarli a cartonati, che sa giocare con le linee narrative e temporali senza perderne mai le redini, che sa asciugare la forma senza rinunciare al battito.

Ciò che sembra volerci dire Andrei, alla seconda prova, è che riuscire a far pace con i propri spettri può essere affare di anni, se non di chilometri, vite intere devote a una ribellione all’apatia della resa che si traduce in un puro istinto di sopravvivenza.

Una resistenza alle correnti più impervie, finché il tronco non si spezza o il vento non si placa.

In questo, uomini e alberi, non sono poi tanto diversi.

Stefano Bonazzi

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L’albero del Ténéré

Alessandro Andrei

Wojtek

16,00 euro — 190 pagine

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