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Comandante Phoenix inedito. Cohorte decima 2320. Obiettivo Omega

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Pubblichiamo un nuovo racconto inedito tratto da Cohorte decima 2320 – Obiettivo Omega opera di fantasia realizzata dallo scrittore Comandante Phoenix.

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Allineò il tubo con l’obiettivo, prendendo una posizione di puntamento. Tenne conto del rilievo dell’occhio, dell’allineamento della vista e della figura da centrare. Poi, si concentrò sul punto in cui era la massima probabilità di colpire l’obiettivo.

Scese dal bus. Due passi e il passeggero fu dentro il terminal aeroportuale. Sul tabellone il pallino lampeggiante indicava il banco presso il quale avrebbe dovuto espletare la procedura di accettazione.

Esibì il necessario. Prese la sua boarding pass con il boarding time e il seat.

Gate 14.

Prima di accedere alla zona d’imbarco e superare il presidio di Polizia, levò anelli, il cingolo del saio e l’”Omega” al polso. Dalla gabbia del metal detector nessun beep. Il bagaglio a mano sul nastro trasportatore attraversò indenne la macchina a raggi X.

Con indifferenza attraversò il beauty free. Al cancello, esibì documento d’identità e carta d’imbarco al personale addetto.

Superati i controlli, il trasferimento dal cancello al velivolo, con il servizio di navetta interno durò un paio di minuti..

Salutò con un garbato cenno del capo gli assistenti di volo e fu dentro il suo aereo.

Chiediamo, infine, che i vostri posti e vassoi da tavolo siano in posizione verticale per il decollo. Si prega di spegnere tutti i dispositivi elettronici personali, tra cui computer portatili e telefoni cellulari. È vietato fumare per tutta la durata del volo. Grazie per aver scelto Triskele Airlines”.

Tra la pista dell’aeroporto e il mare, tutto si faceva ovunque e ancora più lontano. Ma il passeggero, pervaso da una emozione potente, si lasciò andare ad una specie di stato di grazia. L’”Omega” era al suo polso.

La sovrastruttura semirigida, attentamente studiata nel suo orientamento teneva conto del mare, della direzione dei forti venti del trapanese e delle parabole del sole durante le ore del giorno. Su quel tratto di costa il vento dominava su ogni cosa.

La pista, ben dotata di luci di bordo e di luci d’asse, correva per circa due chilometri. Sia le luci di bordo sia le luci d’asse fornivano al pilota delle indicazioni metriche precise.

Le luci di soglia e di fine pista, disposte trasversalmente alla pista e rispettivamente di colore verde e di colore rosso, gli davano la sicurezza di sempre.

Le vie di rullaggio correvano parallele alla pista di volo per evitare possibili interferenze e movimentare contemporaneamente più macchine. Le luci di bordo delle vie di rullaggio di colore blu indicavano la normalità.

Al decollo, la pressione in cabina si ridusse e alcune piccole sacche di aria intrappolate nei seni paranasali e nell’orecchio medio si espansero, causando una sensazione di tappamento nell’orecchio, e una lieve pressione a livello dei seni …

“Cabin crew prepare for take off, please.”

La sensazione era quello dell’”orecchio chiuso”. I suoni gli tornavano ovattati. In termini medici, il monaco al Tre A era vittima di un banale barotrauma.

Tutto era legato alla pressione dell’aria presente all’interno della cabina dell’aereo, La sua tuba di Eustachio, evidentemente non reagì in maniera efficiente al repentino sbalzo pressorio. Le conseguenze furono ovattamento e dolore.

Il dolore alle orecchie fu di brevissima durata.

Sorrise. Chiuse gli occhi. Effettuò la manovra di Valsalva: fece una inspirazione profonda e, tenendo tappato il naso con le dita e la bocca chiusa spinse l’aria fuori dal naso, in modo delicato senza forzare. Avvertì un leggero schiocco e l’orecchio ritornò a funzionare.

Da quel momento, i suoi occhi celesti tornarono a guardare fuori dal suo finestrino. La cicatrice sapeva di freddo. Era la storia di qualche sfregio. Una voce imponente, urlando, gli correva lungo la guancia destra. Una linea curva e slabbrata che ambiva sottolineare, non il racconto di un pestaggio, ma l’insolenza con cui la morte si esprime quand’è tempo di ricordare il terrore a chi “resta”.

Il Tre A. A ridosso della cabina di pilotaggio.

Un paio di riflessi elettrici innescarono la premessa. Da lì a poco il tuono avrebbe suggellato la storia di una consuetudine estiva.

La solitudine dei temporali, così la chiamano gli isolani del posto. Non è del tutto invariabile ai numeri che succedono una volta al mondo, eppure, il segno con cui manifesta la furia è tanto letale quanto gli urti dell’ignoto. E per il suo arrivo, come con la neve, la felicità ha le sue pertinenze. Viene dalle assenze, luoghi a cui non competono le certezze. E’ paragonabile allo zelo con cui si vive per restare isola. Prima, e quasi in alto di fronte a Dio, affonda una lama: dal cielo dell’Acquasacra, il piccolo porto di Hassan El Arat, la nettezza del taglio. E’ il fulmine; poi, dov’è la terra, tra bagli e catodi, colpisce la voce: la potenza del tuono. Al primo incidere, l’oscurità complica i sensi, scuotendo certezze e consuetudini: dal mescolarsi del fuoco al battere liquido della tenacia sulla terra. Lentamente, come l’infuriare delle voglie tra le semine d’agosto, il temporale, si trasforma in ribollente mosto. Dopo gli avvertimenti, in quei posti, accade la complicità. La furia ripete la ferocia al suolo, alimentando quella signoria che l’incomparabile deve al fragore della sorpresa. Ogni luogo, da trazzera a trazzera, diventa quel genere di conseguenza che sai essere sul treno quando è straniera la lunga attesa. Non concede ripensamenti e sembra che tutte le città attraversate si accordino sul prezzo di quel ragionare. Ma è al suo passaggio che il vantaggio sulla sorte si fa incline al paradiso. Alla fine, sul compiersi transitorio di quel fendere viticci e vene, il mondo diventa uno.

2023 Agosto, 23. Al mattino. Aeroporto Paolo Falco.

Un fulmine. Poi, il tuono.

La solitudine dei temporali, così la chiamano gli isolani del posto.

Non appena vide l’aereo rullare, portò missile e lanciatore in spalla. Quaranta libbre di morte pronte per essere utilizzate.

Il cercatore infrarosso era già attivo.

Da lì a poco il missile sarebbe stato in grado di aggrapparsi al calore prodotto dal motore dell’aeromobile. Nessuna emissione di onde radio per farsi “vedere” dal suo bersaglio. Non avrebbe lasciato tracce. Centocinquanta morti per un vecchio orologio fine anni ’80.

Dalla postazione erano poco più di tre chilometri. Una radura nascosta dalla vegetazione. Nel perimetro di lancio una infinità di cespugli. Tra tutti, l’ipocisto con i suoi fiori bianchi e le squame rosse, l’aglio nano, con i fiori rasoterra e l’erba argentina i cui i fiori riflettevano i raggi solari. Inondavano, poi, la quercia spinosa, bassa in altezza, con le ghiande a forma di cupola, l’erica scoparia, alta e ramosa, con le foglie lineari e i minuscoli fiori bianchi, il lentisco, il cisto, la fillirea, la ginestra, il biancospino e la palma nana.

Il Pretoriano della Decima puntò il missile verso il bersaglio. Il soldato restò in attesa. Mirare, respirare, tirare il grilletto.

Due soldati, un tubo di lancio e un missile. L’indomani, la stampa sarebbe impazzita.

Il razzo avrebbe dovuto spingere lo Stinger a circa 1.500 miglia orarie.

Verso il bersaglio ed esplodere.

Lo Stinger avrebbe dovuto colpire il bersaglio a 11.500 piedi. I suoi sensori IR / UV passivi avrebbero cercato la luce a infrarossi prodotta dai motori e tracciato l’aereo seguendo quella luce. Soprattutto, avrebbero identificato anche l’ombra “UV” del bersaglio e usato quell’identificazione per distinguere il bersaglio da altri oggetti che avrebbero prodotto calore in quegli istanti.

Le luci di rilevamento del movimento del missile utilizzavano sensori a infrarossi passivi. I sensori della luce sensibile al movimento erano sintonizzati sulla temperatura di un essere umano. Quando avrebbero visto un improvviso cambiamento nella quantità di luce a infrarossi percepita, avrebbero “pensato” alla possibilità di una persona entrata nella zona. In quel momento avrebbero acceso la “luce”.

Se una luce sensibile al movimento necessita di un solo sensore, un missile Stinger ha bisogno di tutta una serie di sensori, perché il suo compito è di seguire il bersaglio mentre sta volando. Sul naso dello Stinger una fotocamera digitale a infrarossi. La fotocamera avrebbe ricevuto l’immagine a infrarossi della scena. Il soldato della Decima si preparava a lanciare il missile. Gregorius aveva il bersaglio visibile all’incirca al centro di questo sensore.

Il quarterback della Decima avrebbe provato a lanciare la “palla” contro il ricevitore non appena visibile in zona di ricevimento. Non avrebbe lanciato la palla verso il punto in cui si trovava il ricevitore, ma verso il punto della palla in arrivo. Questione di tecnica e di esperienza sul campo. Questo era il terzo lancio di Gregorius.

Il reticolo calcolò la distanza tra il punto di mira e l’obiettivo. Il cecchino prese la posizione di puntamento e respirò profondamente. Cominciò a cadenzare i cicli respiratori. Inalazione, esalazione, due secondi. Pausa. I muscoli della respirazione cominciarono a distendersi. Due cicli ancora, e con l’ossigeno ritenuto, il diaframma non avrebbe registrato alcun movimento involontario. Lo zoom 9x unico a 27 ingrandimenti, gli permise di inquadrare perfettamente l’aeromobile, correggendo progressivamente l’errore di parallasse. Era pronto a far fuoco.

Assenza di vento. Umidità 82 per cento. Correggi in alzo due click. Nessuna presenza ostile nel terreno. Puoi celebrare.”

L’”Omega” non sarebbe giunto a destinazione.

Il Giudice Nichelino sarebbe stato annientato definitivamente. E, dopo quel remoto 19 luglio, ammazzato per la seconda volta.

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