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Claudio Sanfilippo inedito. Il Tico-Tico di Lambrate

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Dopo aver festeggiato i 20 anni di attività di Satisfiction insieme a scrittori come Enrico Remmert, Stephen King, Vitaliano Trevisan, Raul Montanari ed Enrique Vila Matas, in occasione dei 22 annni della rivista pubblichiamo i racconti di autori che da anni contribuiscono a creare Satisfiction.

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Chissà per quali carambole certe musiche sono piovute dentro di noi, tra quelle zone grigie in cui non sappiamo riconoscere altro se non la verità dei sensi che ci coglie quando il caso ce le presenta, sovente a tradimento, funambolicamente.

Per me la più evocativa e misteriosa ha un titolo croccante, esotico: Tico-Tico.

Una piccola ossessione, come può capitare a tutti, anche per altre ragioni legate a un cibo, una bevanda, un oggetto, un odore, un quadro, un fotogramma che sfiora le spalle.

La musica, si sa, ha un carico emotivo potente e il Tico-Tico, nella fattispecie, è una di quelle melodie lì. Un richiamo al quale, ogni volta che la memoria profonda si attiva, non riesco a sottrarmi. Vai a sapere.

Fino a che una mattina, scambiando due parole con lo zio sulle memorie di famiglia, tutto si svela, e il Tico-Tico assume contorni simbolici che non avrei mai immaginato.

La storia riguarda i miei genitori nel tempo del loro primo incontro.

Il Piero e la Jone sono i protagonisti del film. Titolo: il Tico-Tico di Lambrate. Cortometraggio, lungometraggio, documentario, nel bar del tempo ci sta tutto.

Si conobbero nel 1950 davanti a un laboratorio di pasticceria. A Milano, in via Ofanto, là dove ancora adesso inizia il Parco Lambro. Il destino ha voluto che qualche decennio più tardi le loro spoglie finissero a poche centinaia di metri da quel primo appuntamento, all’indirizzo del camposanto di Lambrate.

Quel giorno del 1950 mia madre, la Jone, aveva quattordici anni, era poco più che una bambina. Mio padre, il Piero, ne aveva diciassette, un ragazzo a cui mancava ancora un pezzo per chiamarsi maggiorenne, fino al 1975 la maggiore età era fissata a ventun anni. Il Piero aveva iniziato a lavorare ragazzino sulle orme del nonno Vincenzo, pasticciere e gelatiere salito a Milano da Catania per esportare cassate e martorana. In quel laboratorio il mio futuro papà si ritrovò a lavorare con mia nonna materna, la nonna Adriana.

Un giorno la Jone, la ragazzina che dieci anni dopo mi avrebbe messo al mondo, fece una passeggiata da via della Sila per incontrare sua madre alla fine del turno di lavoro, e tornare a casa insieme a lei. La Jone e il Piero si conobbero così, tra un ciao e un buonasera davanti al portone di quel laboratorio, con la presenza un po’ ingombrante della nonna, e qualche tempo dopo si fidanzarono.

Il primo regalo del Piero alla sua giovanissima morosa fu un carillon che cantava le note del Tico-Tico, una canzone molto in voga in quel tempo. Mio zio, che non sa nulla della mia passione per questo brano, racconta che nei miei primi anni di vita quel carillon stava sulla cassettiera della camera da letto dei miei genitori, e ricorda che mia madre ogni tanto caricava il meccanismo. Forse per sognare chissà quali paesaggi, forse per farmi addormentare. Troppo tardi per sapere, non ci sono più testimoni. Ma il suono tintinnante del Tico-Tico che inizia a passo svelto per scalare fino all’esaurimento delle vibrazioni, quello si può immaginare. Una melodia dolce, ripida, ballerina. La musica fu composta nel 1917 da Josè Gomes de Abreu, in arte Zequinha, mentre il testo è di Aloysio de Oliveira. È un “chorinho”, diminutivo di “choro”, una forma tipica della tradizione brasiliana che significa lamento, pianto. Dentro ci trovi l’Europa di valzer, polca, mazurca, quadriglia, danze che si fondono con l’Africa e l’habanera. Musica da ballo, musica folk che poi incontrerà la musica classica, con Villa-Lobos e altri.

Roda de choro, con i suonatori in cerchio: chitarra a sette corde, cavaquinho, flauto, pandeiro, clarinetto, mandolino, tromba, sax. Lo “choro” è un po’ il progenitore del samba e in parte della bossanova, che però ha una storia legata al jazz, alla ballad ricca di armonie.

La canzone parla del passero dal collare rosso (tico-tico in portoghese), un uccellino diffuso nel continente sudamericano e noto per i suoi armoniosi vocalizzi.

Forse l’amore per la bossanova e la cotta per certi paesaggi sonori proviene da quel carillon che non ricordo, è un suono distante che risale alla prima infanzia. La scoperta di Jobim nelle tessiture orchestrali di Claus Ogerman insieme alle parole di Vinicius; un’eleganza senza tempo, sospesa nella giungla. Per dire dove si può sbarcare se prendi al volo il Tico-Tico, che in effetti potrebbe essere il nome di un treno che attraversa l’interior, l’entroterra dei sentimenti che lavorano il silenzio, lontani dai commerci.

Lo zio aggiunge che un giorno il carillon smise di funzionare e mia madre, poco incline a conservare oggetti guasti, se ne liberò. Forse in questa piccola storia ci sono diversi gradi imperscrutabili di musicofilia. La sensazione ipnotica, ineludibile, ogni volta che il Tico-Tico fa capolino mi viene voglia di fischiare. Gli anglosassoni, la cui lingua è maestra di sintesi, lo chiamano imprinting. I francesi dicono deja-vu, già visto. In italiano si potrebbe dire impronta, apprendimento precoce. In milanese mi vien da dire “gibigianna sentimental”: come un sogno incompiuto, come un dolce segreto. Così cantava la Wanda.

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