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Mario Morbelli inedito. Tupperware

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Pubblichiamo di seguito Tupperware un racconto di Mario Morbelli vincitore in occasione del Salone del Libro del premio InediTO per il testo della canzone Confessioni di un artista di merda.

L’autore aveva partecipato al premio anche nella sezione narrativa con questo breve racconto inedito del quale autorizza la pubblicazione su Satisfiction.

Carlo Tortarolo

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Dovrei cominciare parlando del cortile, un quadrato brullo intorno alla casa, una cascina a due piani, un fienile chiudeva il perimetro e poi campi e boschi tutt’intorno. La porta, una tendina logora di plastica e vimini, odore di legna. Una grossa stufa in ghisa spenta, poca luce. Da quel lato le persiane non si aprivano più. Il vecchio Pà ci si era aggrappato per non cadere a corpo morto sulla ghiaia. Era riuscito, se non altro, ad adagiarsi senza scomporsi ma una cerniera dell’anta destra si era incrinata. Da quel giorno nessuno l’ha mai più messa a posto. Rimane chiusa.

Una volta seppellito nel cimitero del paese, al di là del fiume, sua moglie era riuscita a farsi dare il numero del tizio che metteva a posto un po’ tutto ma, facendo quel numero, così era scritto sulla relazione del neurologo: rispondeva Rita Hayworth.

La vecchia non era una donna difficile ma da quando Rita le parlava al telefono e non le passava mai il tizio che aggiusta le persiane, le cose in quella casa si erano decisamente fermate. Tutte queste storie in paese erano diventate pettegolezzi.

Oltre la porta, c’era un lungo divano soffocato da coperte a quadri. Un tappeto persiano dozzinale sotto un tavolo rotondo, due sedie davanti alla televisione appoggiata, un po’ in bilico, su un tavolino a ruote, i ripiani di vetro borchiati agli angoli. Una specie di cesta, coperta di stracci, serviva ad accogliere il grosso culo di Brandeburgo: un caleidoscopico pasticcio di tanti cani grassi che, solo Dio sa quanto somigliasse a un bracco italiano. Poverino. In ogni caso non era lì in quel momento.

Il pavimento della cucina scricchiolava e superando il tavolo a penisola cominciavano le piastrelle di un serissimo rosso mattone. Sulla sedia davanti alla tv, la vecchia, con le mani una dentro l’altra e la testa china su un lato. Mi trovavo lì perché dovevo recuperare una giacca e un cappello da donna lasciati alla festa del giocatore di pallone. Le aveva dimenticate una ragazza che conosceva quelli della mia compagnia. Questo posto si trova sul tragitto di quella dei miei, così è sembrato a tutti una buona cosa chiedermi di passare a recuperare quella roba. Il giocatore di pallone aveva trovato nel suo letto quella giacca con il berretto infilato in una manica il giorno dopo la festa e lo aveva portato al figlio più piccolo della vecchia. Lo aveva fatto perché era sicuro di non essersi comportato bene quella notte e preferiva non rivedere la ragazza. Sono nato e cresciuto in questa valle e in quasi trent’anni non è mai cambiato niente. Brandeburgo è il secondo cane che vedo invecchiare qui dentro, ora vivo a quattro ore di viaggio verso nord, quattro ore di viaggio anche con una macchina veloce. A quella festa c’ero anch’io, mi ero concesso una distrazione in questi giorni di Natale, passati perlopiù in ospedale, poi in chiesa e infine al cimitero: i genitori muoiono. Quella famiglia era mal vista in paese, giravano voci di eredità e malcontenti. Casa loro era disordinata, sporca: legna da ardere in terra sotto l’asse da stiro. Colonne di riviste che servivano a farci i baffi sulle fotografie di facce durante le telefonate più lunghe. E poi queste persone che ricordavo bambini ma che erano diventati adulti. Due figli maschi e una femmina. C’erano altre persone che giravano per la casa, fidanzati e mogli, credo. Si muovevano goffi, perché quando torni nel posto dove sei nato il tuo atteggiamento è a metà tra un bambino di neanche un metro d’altezza e l’adulto con le spalle larghe. Avevano fretta e come formiche si incrociavano senza guardarsi in faccia. Per il primo minuto non uno di loro si accorse della mia presenza. Ero ancora fermo sulla porta e pensai che fuori non avevo visto macchine. La mia l’avevo lasciata al centro del cortile con il motore acceso. Finalmente, con la mano spalancata come una star quando non vuole farsi fotografare, il figlio più giovane della vecchia arrivò a un metro dal mio naso. Interruppi il ragionamento sulle macchine in cortile. Lui, pur invitato alla festa, era uno di quei tizi che a nessuno vien mai voglia di conoscere. Una notte di molti anni fa, a una gita scout in furgoncino, lo abbandonarono di proposito nell’ultima stazione di servizio prima dell’autostrada, in mezzo ai campi di grano, a chilometri dal borgo. Lui passò la notte rannicchiato nello gabbiotto trasparente dove una volta stava il benzinaio. Lo trovarono due operai il mattino seguente, sotto shock, quasi ibernato.

«Esci esci esci» disse guardando in terra.

«Son passato a prendere le cose della ragazza bionda che era alla festa l’altra sera»

«Sopra i giornali, prendi tutto, poi vattene» e si chinò per raccogliere un sacco della spazzatura.

Una delle donne era in ginocchio, faticava ad infilare una padella in uno scatolone già pieno, un’altra era con le mani nel lavandino, svuotava bottiglie di birra lasciate un po’ dappertutto, ce n’erano anche vicino ai miei piedi. Un tendone amaranto divideva il salone. Si sentivano rumori di mobili trascinati per brevi tratti. Dalla scala il primogenito con tre scatole in mano mi indica con il mento: «Oh, coglione togli quella macchina e vai affanculo, che se non lo hai capito abbiamo da fare qui»

Faccio un passo per agganciare quella roba, stando attento a non calciare le bottiglie. Ero io che guardavo in terra adesso. Entrato in macchina, ho lanciato le cose dietro, tolto il freno a mano e fatto un respiro lungo. Era come uscire da un’apnea. Ho disegnato un semicerchio nella ghiaia, facendo manovra, con il collo curvo per guardare dietro. Poi però mi son dovuto fermare nell’angolo del cortile. Inchiodato a una persiana laterale c’era un cartello arancione con scritto vendesi. Un’ambulanza stava entrando in retromarcia nel cortile. Ho aspettato poco meno di un minuto. Poi ho infilato la macchina nel viale per andarmene a passo d’uomo. Brandeburgo se ne stava seduto in mezzo alla strada e mi guardava. Il collare sembrava una cima da ormeggio e lui era sporco di fango, secco. Mi son fermato e con la testa fuori dal finestrino ho provato a chiedergli di spostarsi. Non sembrava affatto dell’idea.

Mi misi a ridere: «Brandeburgo, spostati»

Aveva l’espressione dell’amico che ti abbraccia per ultimo al funerale di tuo padre.

Ho lasciato che il radiatore sfiorasse i suoi baffi e quasi commosso sono sceso, abbassandomi alla sua altezza «Ma davvero non ti sposti?» Lui sembrava volesse dirmi delle cose: «Hai visto che la vecchia è morta? E ‘sta gente? Cosa faranno con me?» Forse altre persone lo avrebbero adottato, forse senza nemmeno avvisare quella gente affaccendata a far su quelle cianfrusaglie, ma non io. I cani sono come le barche a vela: devi essere capace, se no strapuggi, la barca si inclina, la vela s’immerge nell’acqua e sono guai.

La mia ex fidanzata aveva dimenticato un Tupperware pieno di crocchette per cani nel bagagliaio.

Li feci annusare a Brandeburgo spostandomi sotto una pianta. Lui si tirò su per raggiungermi. Gli indicai il cibo che avevo messo in terra. Cominciò a mangiare. Tornai alla macchina e ripartii.

La strada sotto le piante si apre in discesa verso la vallata, con una collina a fare ombra alla casa sottostante. È quella del giocatore di pallone, con un bellissimo giardino chiuso da un recinto in legno dipinto di bianco. La natura circostante è regolamentata da vecchi pali della luce un po’ storti e da alcune vigne che corrono una dietro l’altra, delineando ampie impressioni rettangolari. Fuori dalla staccionata, una ragazza con un cappotto e due para orecchie blu scuro camminava a passo deciso nella mia direzione. Era in lacrime, capelli biondi, lisci fin sulle spalle. Mi vide e si fermò, strofinandosi gli occhi e le guance con le muffole di lana. Poi tirò su con il naso.

Era la ragazza della festa.

«Che vuoi?» disse.

«Se stai andando alla casa oltre il bosco, lascia perdere» le dissi. «Le tue cose le ho io»

La vecchia signora era morta in casa, proseguii, la famiglia se ne stava occupando, compresa l’ambulanza. Lei cambiò espressione, indossò quella per cose serie.

Se avesse voluto, avrei potuto riaccompagnarla in paese o lasciarle fare la strada a piedi. Lei con uno sguardo al bosco e poi uno al recinto, accennò un passo per liberarmi le mani, ringraziandomi e aggiungendo che il giocatore di pallone rimarrà un coglione. Accettò il passaggio, precisando che di strada inutile ne avesse già fatta abbastanza.

In macchina non parlammo di niente, lei guardava dal finestrino abbracciando nervosamente la giacca. L’unica frase che pronunciai, sulla vita e sulla morte, è servita a farle fare un sorriso e a tirare su col naso un’ultima volta. E poi ho guidato in silenzio fino alla piazzetta.

Il Tupperware era rimasto di costa nell’intercapedine dei due sedili, il coperchio blu sul cruscotto.

Sarebbe stato più romantico se avesse rotto la collana di perle nella litigata con il giocatore di pallone, l’avrei aiutata a cercarle tra i fili d’erba per raccoglierle tutte. Mettendole dentro al contenitore, inginocchiati sul prato, Brandeburgo in mezzo a noi complici.

Ma non successe nulla di tutto questo.

Prima di andarmene l’ho chiuso bene, l’odore pungente di cibo per cani aveva invaso l’abitacolo. Uscendo dal paese guardai il cielo, era di polistirolo, un tramonto anonimo.

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