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Comandante Phoenix inedito. Cohorte decima 8919 – L’ultima falange

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Pubblichiamo un nuovo racconto inedito tratto da Cohorte decima 8919 – L’ultima falange opera di fantasia realizzata dallo scrittore Comandante Phoenix.

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Fece una rapida conta. Avrebbero dovuto essere in dodici. I reparti “K” ed “Azalea”. La “Tradizione” e l’infamia. In fondo, tra quelli prefigurati, il finale più ovvio. Avrebbe potuto pianificare una strategia ordinatamente oppositiva e accrescere, anche se di poco, le probabilità di sopravvivenza. Una piazza affollata, sarebbe stata tecnicamente perfetta. Disseminò nei giorni precedenti tante di quelle tracce da trasformare la sua vita nel facile bersaglio di oggi. Concluse che vivere una vita da cane braccato, come quella da lui vissuta fino a pochi giorni prima, non l’avrebbe meritata neppure il criminale più indegno. “Cedere il passo si”, pensò e con innaturale freddezza”, ma collocandosi sul “Nord dell’ago”. La casa in collina. Alla faggeta, tra i Sebrodi. Scelse quel posto isolato. A parte loro, nessuno avrebbe dovuto farsi male. La visuale era buona. Un solo accesso, da Sud. Col sole alle spalle. L’attività mirante, anche in notturna, perfetta. Erano trascorsi due anni dal loro primo tentativo. Non riuscirono a freddare la questione. Tre dannate volte. Beccò un dirompente 9 mm al ventre. Gli fu difficile crepare. Era un fottuto soldato. Il micidiale stalker della “Decima Cohorte”.

“La fratellanza”, ricordò e con quella amarezza che solo il sale sa raccontarti, “implica l’onore sino alla fine”. Come la tegolatura nel 1989. Tenne testa ai ricordi, ma quello, tra altri mille indelebili, lo volle con sé in quel momento. In piedi, limpido e intrecciato a quell’infinità di piccoli dettagli da essere il Rembrandt dei ricordi.

Al di là del sospetto, quel giorno d’agosto aveva tutte le caratteristiche dei soliti “informali” comandi in missione. Eppure, qualcosa, in quelle ore, non gli tornò. Nel Ducato grigio, compreso lui, erano in sei. Due dei servizi di Città Centro, due Ispettori aggregati alla sezione catturandi della mobile, un funzionario dell’Amministrazione dell’allora Grazia e Giustizia e lui, Tenente della “Benemerita”. Fu il Tenente a provocare uno di quegli addensamenti emotivi che tanto lo mandavano in bestia. O meglio, quelle perturbanti contraddizioni logiche che sanno seminare in chi ascolta o in chi osserva dubbi e laceranti conflitti. L’uomo che gli sedeva di fianco recava una Glock e due enunciati. E le variabili che ne componevano la natura lo portarono, quel giorno, a concludere che le “specificità” osservate nel Tenente “una” doveva essere la negazione dell’”altra”.

Anche lì, come gli ricordava suo padre, avrebbe dovuto procedere per riduzione all’assurdo. Avrebbe dovuto provare, in quel lasso di tempo, che il suo certo punto di vista sarebbe stato corretto mostrando che l’opposto era errato, implicando così che la tesi doveva essere accettata perché il suo rifiuto sarebbe stato indifendibile.

I segni sull’anello che quel “Tobias” portava al mignolo: la prima “specificità”. Quei segni contraddicevano una promessa solenne ed un’appartenenza, la seconda “specificità”. In altre circostanze, Squadra e Compasso disegnati sul letto di un anello non avrebbero suscitato sensazioni così potenti come quelle vissute tra le ore di quella sera. Avrebbe raccolto altri segnali. Li avrebbe catalogati, numerati e ordinati. Avrebbe formalizzato idee e ipotesi e, alla fine, elaborato alcune rappresentazioni cognitive a tal punto da discriminare quel gruppo di segnali sensoriali. Non gli importava giungere all'”atomo” del pensiero, ma solo ai “sistemi” che avrebbero dato luogo in modo cooperativo alle caratteristiche delle “specificità” rilevate.

In pochi secondi avrebbe dovuto formulare una tesi. Occorreva farlo. Un Massone, un Muratore Operativo, tra i ranghi di un’amministrazione per tradizione così lontana da quegli assunti, gli tornava innaturale.

Il giorno della maledetta tegolatura.

A sovrintendere era Tiberius.

“Mi è stato riferito che hai fegato e palle.”

“Solo voci, dottore. Spero non deludere, dottore.”

“Chi ti ha arruolato possiede regola e fede. Uno stronzo figlio di puttana che ti avrebbe mangiato il fegato se solo avesse avuto il minimo dubbio.”

“Si, dottore…”

“Dottore, il cazzo! Qui per te e per i tuoi fratelli sono il Comandante. Tu servi la causa. Sei un soldato e servi una bandiera. Non c’è scopo maggiore di quel superiore interesse che trama le finalità dello Stato. Chi tradisce e opera contro gli interessi sovrani è un nemico della Repubblica. Un traditore da abbattere. Oggi, risolviamo un problema. Sappi che operiamo a malincuore. Il “problema” possedeva la nostra regola e indossava una sacra divisa.”

Alle 19.15, il gracchiare del walkie-talkie interruppe il Comandante. Il furgone, nel frattempo, filava in autostrada. Svincolo Villaserena di Parini.

“Il problema si accompagna, passo.”

“Può essere risolto in altro modo?”

“Chi accompagna il problema conosce me e “Bruciato”, passo.”

“Opzioni?”

“Nessuna, passo.”

“Risolvete in ogni caso.”

“È la moglie del problema. Incinta, passo.”

“Allora, i problemi sono due. Risolvete, al nostro arrivo. Assicuriamo copertura.”

“Restiamo in attesa. Altre istruzioni? Passo.”

“A lavoro compiuto, ripulite. L’attrezzatura, le bombole, le armi. In ordine, tutto.”

“Siamo sul posto. Al vostro arrivo, chiudiamo. Passo e chiudo.”

Dallo svincolo, una manciata di minuti. La motocicletta con “Bruciato” e “Lucio Saverio” stazionava poco distante dall’obiettivo. Era caldo. Agosto. Lento e infuocato.

“Da oggi, se servirai con fede, sarai un Pretoriano. Chi sta dentro la “Decima” serve la causa fino alla fine. Non dimenticare.”, tuonò “Tiberius”, il Vicequestore.

Il Tenente, a quel punto, in un sussurro fece come per rassicurarlo.

“Ti sembrerà assurdo e feroce. Ad esaltarti saranno le emozioni e la pietà. Ricorda solo questo: lascia dentro te uno spazio, anche infinitamente piccolo, dove collocare la tua umanità. Piacere, io sono Tobias.”

In quel lasso di tempo, giunse il “segnale”. Aveva trovato il suo “terzo valore di verità”.

Estrasse il percussore. Poi, pulí la faccia dell’otturatore e le alette di chiusura, rimuovendo l’olio dall’otturatore e dal percussore. Lentamente, controllò in ordine l’estrattore, l’espulsore, il percussore e la camicia dell’otturatore. Come sempre, fu severo. La sua vita, d’altronde, dipendeva da quel particolare zelo. Soddisfatto, versò alcune gocce di olio antigelo all’interno dell’otturatore e del percussore. L’olio viscoso, invece, gli serví per lubrificare le alette dell’otturatore, la rampa di armamento, la camicia dell’otturatore ed il dente di armamento. Montando il percussore, verificò che la protrusione fosse di 1,65mm. Le condizioni dell’attacco delle mire metalliche apparivano perfette.

Respirò, adattando il moto emotivo agli ultimi accadimenti. Neppure un cenno. Tenne lontano dalla mente ogni insidia. E con rinnovata freddezza tornò al compito. Nel suo sguardo tutte le frasi del ghiaccio. Gli occhi, tra profonde quote di nero e mutanti abissi, riflettevano indeclinabili tormenti. Le guance e gli zigomi dicevano tutte le esperienze del dolore: raccontavano di una vita trascorsa tra le fiamme di un sole inclemente o le fredde lame di quelle piogge inesauribili e battenti. La barba, perfettamente squadrata, riusciva a celare due solchi lunghi. Due cicatrici da taglio, l’esito feroce e conclusivo di una disputa. Con la punta di un proiettile premette la parte posteriore dell’elevatore e poi, afferrando la parte anteriore della rampa, la tirò in avanti premendola contemporaneamente verso il basso.

Con calma. Un solo gesto con la destra. Veloce ed efficiente. Diede fuoco ad un Montecristo. Trascurò la fiamma e aspirò, con deliberata potenza. Buttò tutto nei polmoni, come a voler risolvere nell’unico modo possibile una delle tante questioni. Con delicata cura replicò un soffio. Una nuvola viola esaltò solitudine e silenzio. Guardò l’arma. Sospirò. Pochi secondi. Mille ricordi. Mai un colpo fallito. Era l’ultima caccia. Tutto doveva essere perfetto. La sua “ragazza” doveva essere perfetta.

Con estrema cura e impressionante velocità, estrasse l’otturatore dall’azione

e tirò la leva della sicura all’indietro. Con una chiave a brugola da 5mm allentò la vite di tenuta del pacchetto di scatto.

In una sola azione estrasse il “pacchetto”, tirando la guardia verso il basso.

Respirò. Osservò ogni dettaglio. Alla fine, eseguendo le operazioni in ordine inverso, rimontò il pacchetto di scatto.

“Adesso, baby, il tuo profumo. E ti faccio più bella …”

Con estrema delicatezza guidò lo scovolo imbevuto di solvente fino a farlo fuoriuscire, ad ogni spinta, dal vivo di volata.

“Dieci passate col tuo scovolino, vero?”

Il suo TRG-22 era pronto. I 7,62 NATO erano tutti in pienezza.

I 660mm, in acciaio al cromo-molibdeno, con le 4 righe a passo costante per le sue 10 cartucce subsoniche brillavano come non mai. L’ottica di puntamento assisa sulla rotaia sembrava esaltare, come la corona sul capo del Re, quel regno di acciaio trilegato.

Da quel momento, restò in attesa. Quanti anni erano trascorsi da quel giorno? Volle tornarci. Ma impedendo ad ogni genere di emozione qualsiasi intrusione. Aveva venticinque anni. Il giorno della solenne promessa. Quel giuramento. Trentacinque anni prima. Tra le mani di un Prefetto indegno.

Gli uomini dei reparti “K” ed “Azalea” non avrebbero tardato all’appuntamento.

Avrebbe rivisto Tobias, Pretoriano della “Decima”.

Sorrise.

L’onore sino alla fine.

29 settembre 2023

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