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Stefano Bonazzi inedito. Belvo

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Tutto inizia con i serpenti. Come nella bibbia.

Per dargli la caccia uso un laccio di fil di ferro annodato in cima a una pertica. In primavera si possono stanare con il fumo ma in autunno vanno a deporre le uova, a quel punto si possono prendere anche con le mani.

Non è velenoso, dicono i vecchi, nessuno è mai morto per colpa sua, anche se qualche morso nei talloni, durante il periodo di raccolta in mezzo ai campi, quei viscidi bastardi riescono sempre a piazzarlo. Gli piace il fango. È più facile stanarli dopo un temporale, quando la terra si sfalda come pelle morta. Dopo un’acquazzone li vedi strisciare bianchi, viscidi e lucidi. “Bocche di Cotone”, il loro nome originale, perché l’interno della bocca è bianco come un batuffolo di cotone. Hanno il corpo ricoperto di striature, è così diverso da quello dei serpenti che si vedono nei dipinti appesi in canonica. Ingoiano le galline vive.

Quando ci annoiamo prendiamo i cachi maturi, quelli caduti in terra, con la buccia sottile, che a tenerla troppo tempo in mano si squaglia come un budello. Ci infiliamo dentro la punta del cazzo. Facciamo i movimenti che fanno gli adulti, la sera tardi, sui canali con i nomi stranieri, bastano pochi minuti. Quando strusciamo la polpa calda e appiccicosa chiudiamo gli occhi immaginando di essere dentro una ragazza vera.

Abbiamo fame.

Le giornate al bunker non passano mai. L’afa, la noia, i corpi sudati.

Belvo ha rimediato degli sballi nuovi, lui ha un sacco di contatti con amici della città. Gente che attraversa le dogane come fantasmi, in poco tempo casa sua si trasforma in una roccaforte di sballo e musica altissima. Arrivano anche le ragazze.

Ci sono questi funghi dal sapore schifoso, «roba pesa», dice lui, «roba che ti scoperchia la mente», «con un paio di morsi puoi parlare direttamente con il creatore, con gli alieni, con chi cazzo ti pare».

Prima di arrivare abbiamo rubato un paio di borselli alla fermata della corriera, è stato facile, stanno tutti fuori con questo caldo. Con i soldi ci possiamo pagare un cestino di “fiorellini magici” ma prima di lasciargli la grana, Belvo ci dice che è arrivato un nuovo prodotto, una “cosetta” che stava aspettando da mesi.

Sventola una busta davanti agli occhi, «questo affarino qui sono 150 mg di Dimetiltriptamina potenziata chimicamente, nome in codice “DMT 19”. Impossibile da trovare. Se chiedete ai pulotti, non sanno nemmeno di cosa stiamo parlando.»

Quando gli domandiamo dove se la sia procurata risponde che ha amici in Colorado e quando gli chiediamo che effetti provoca, lui risponde che in Colorado questa droga la danno agli ergastolani. «Li legano a dei giganteschi trasmettitori, antenne grandi come questa casa. Li tengono appesi per giorni, strafatti di questa merda. Per captare i messaggi. Sono convinti che amplifichi i sensi, che li faccia diventare dei cazzo di recettori umani. Questa roba ti fa vedere l’invisibile.»

Noi, l’invisibile, lo vogliamo vedere.

«Allora facciamo un gioco.»

Belvo ci porta al bunker. Anche le ragazze.

«Adesso dovete confessare.»

Alice sorride, non si muove. Belvo è massiccio, la mascella squadrata, il viso privo d’espressione anche nei rari momenti in cui si lascia trasportare dall’euforia di una battuta o è troppo ubriaco per trattenersi dal prendere a calci qualcuno. È alto, tipo giocatore di pallacanestro americano, con lineamenti tesi, modellati sopra uno strato di carne brufolosa, simile a stucco. La fronte altissima, sormontata da una generosa quantità di capelli color carota che si ostina a schiacciare in una cresta da nazi. Prima di conoscerlo ci piaceva scherzare su questa convinzione che dietro le fronti troppo ampie si nascondessero cervelli troppo piccoli poi nessuno ha più avuto il coraggio di fare quella battuta.

«Tutto quello che vuoi», Alice sorride.

A Nico scappa una risata. In quel momento mi ricorda Biss, la serpe che sibila all’orecchio del Principe Giovanni, in Robin Hood.

Belvo sta fissando Alice.

«Hai mai baciato una donna?»

La ragazza si porta un dito alle labbra, finge di pensare, poi guarda Eva e insieme scoppiano a ridere in un modo che nella mia testa risuona come l’eco di cento folaghe impazzite.

«Sono serio. Raccontaci quello che fate tu ed Eva.»

«Noi?»

«Sì.»

«Non facciamo niente.»

«Bugiarde. Perché state ridendo?»

«Lo giuro!»

«Lo giuro anch’io!»

Alice si porta le dita alle labbra, simulando un ridicolo gesto di pentimento. L’amica la imita. Altre risate.

«Ve la siete mai toccata?»

«Che dici?»

Belvo finge di non sentire.

«Avete mai giocato?»

«Giocato?»

«Rispondi.»

Sto scoppiando, mi volto verso Nico. Il mio amico non la smette di tormentarsi un grumo di brufoli alla base del collo, somiglia a un piccolo grappolo d’uva matura. Questa cosa che ci siamo appena ingoiati, invece di procurarci benessere, rilassarci, ci sta scoperchiando un nucleo di cose nere e collose.

Siamo eccitati, un’adrenalina bollente ci sale dall’inguine dritta al cervello. Il cielo è di un bianco pulsante che fa lacrimare gli occhi. Il verde smorto delle piante rinsecchite ha assunto il colorito fluorescente di un evidenziatore. Siamo catapultati in un modo privo di sfumature, un paesaggio acido, liquido, ribollente di schiaffi invisibili.

«Proprio non mi vuoi rispondere, eh?», non smettono di fissarsi. Alice lo guarda da basso, gli occhi sono due bagliori bianchi affiorati da un pozzo d’ombre. Come Eva e Nico, anch’io so di essere solo una comparsa. Non sono sicuro di riuscire a restare immobile ma non so nemmeno cosa sarei in grado di fare se mi lasciassi andare.

«Se non vuoi collaborare, devi essere punita.»

Belvo si volta e mi tende la mano destra. È la prima volta da quando siamo lì che si accorge della mia presenza.

«Dammelo.»

Apro la cesta.

Il Mocassino è raggomitolato su se stesso. Il corpo forma una specie di bozzolo ovale. Gli occhi, due sfere ramate ridotte alla grandezza di un’unghia, sono aperti. Batto le mani sulle cosce nude. So come prenderlo. Passo un bastone sotto la testa per sollevarlo. Sembra molto più leggero di quando l’avevo catturato. Lo passo a Belvo. Anche lui ci sa fare con i serpenti.

«Levati i sandali.»

Alice obbedisce. Sfila il sinistro poi slaccia il destro, alza la gamba e lancia il sandalo rimasto appeso al piede verso di lui.

«Sei scema? Così lo fai agitare.»

Il serpente sembra ancora addormentato, oscilla pigramente aggrappato al braccio di Belvo. Stiamo tutti immobili, persino il vento bollente di mezza giornata, in questo istante, sembra trattenere il suo respiro.

«Ora te lo metto. Sei pronta?»

«Sì.»

«Non devi muoverti.»

Alice sbuffa. Ha sempre avuto una passione per i rettili. Le piaceva catturare le lucertole stordendole con la birra ghiacciata. Faceva un buco nelle lattine dopo averle agitate e gli spruzzava addosso la schiuma.

In questo momento non riesco a pensare ad altro che quella schiuma giallastra che esplode dalla lattina, le mie gambe rigide come bastoni.

Il mocassino si arrampica sulla coscia sinistra. La pelle chiara, dalle striature appena accennate, lo fa sembrare un tentacolo uscito dalle gambe di Alice.

«Allora?»

«È caldo.»

«Ti piace?»

«Me lo immaginavo viscido. Invece è solo… caldo.»

«Lascialo salire.»

«Non sei geloso?»

«No.»

«Cosa vuoi fare?»

«Voglio vedere dove arriva.»

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