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Christian Klinger anteprima. Gli innamorati di piazza Oberdan

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L’amore nel bunker sotto i bombardamenti: “Si fecero largo verso il fondo e, quando furono giunti vicino ai bagni, Pino si guardò brevemente attorno, poi trascinò Laura in una cabina aperta. Lei cercò di protestare a bassa voce, ma lui le aveva già tappato la bocca con le sue labbra e le sue mani avevano trovato la strada sotto la sua camicetta. Laura gemette, lui le chiuse la bocca, così che lei poté mordergli dolcemente la mano. La luce vacillò, mancò per un poco, poi ritornò. La camicia di Pino era aperta e i capelli di Laura scompigliati, quando la lampada sopra di loro smise di vacillare mentre il tremito veniva ormai solo dai loro corpi. Ansimando Pino si staccò da lei”.

Trieste ai tempi di Salò: “La guerra non era affatto finita con l’arresto di Mussolini. E adesso Mussolini era stato liberato da un commando tedesco. Chi non combatteva per la nuova Repubblica Sociale, doveva prestare servizio di lavoro obbligatorio nell’organizzazione Todt. Chi non voleva non poteva far altro che scappare in montagna, sul vicino Carso, dove si erano nascosti i partigiani, o per l’appunto attendere il proprio arresto”.

È in libreria Gli innamorati di piazza Oberdan dello scrittore austriaco Christian Klinger (Bottega errante edizioni 2024, pp. 312, € 19,00) con traduzione a cura di Federico Scarpin.

Vittorio, un giovane originario di Trieste, sfiora la morte durante la Prima Guerra Mondiale e successivamente costruisce la sua carriera come avvocato in un’epoca tumultuosa. La nascita di suo figlio Pino sembra coronare la sua felicità. Durante il periodo del regime fascista in Italia, Vittorio si impegna nell’assistenza a ebrei e sloveni per raccogliere fondi destinati all’emigrazione, attirando l’attenzione delle autorità.

Pino, cresciuto in un ambiente protetto e amorevole, decide di studiare architettura, evitando così la leva nel 1940. Condivide con la giovane insegnante Laura una passione profonda. Coinvolto quasi involontariamente con i partigiani, diventa un obiettivo per la Gestapo.

Questa è una saga familiare ambientata a Trieste, un romanzo storico che ci conduce dai giorni finali dell’Impero asburgico fino alla conclusione della Seconda guerra mondiale. Al centro della trama, una storia d’amore tragica si sviluppa in una città crocevia di culture.

La narrazione include il rievocare gli eventi drammatici e sanguinosi legati alla risiera di San Sabba, l’unico campo di concentramento tedesco in Italia durante l’occupazione nazista, dove, secondo le testimonianze, perse la vita un numero significativo di persone, stimato tra tremila e cinquemila.

Così si consola un funzionario fascista durante l’occupazione nazista a Trieste: “Jacopo aprì di nuovo un cassetto della scrivania e tirò fuori del disinfettante e una siringa, si rimboccò la manica sinistra della camicia e, prima di riempire la siringa, si disinfettò la vena nella piega del braccio. La siringa con la morfina che doveva liberarlo per un po’ dai fantasmi nel suo cervello, quei fantasmi che lo tormentavano notte dopo notte, che lo perseguitavano ogni istante in cui chiudeva gli occhi e non lo lasciavano più in pace”.

Questo libro struggente ci rammenta che, quando comincia una guerra non è vittima solo la verità ma anche l’amore.

Carlo Tortarolo

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Attraverso lo spioncino della porta di legno s’infilava nella cella un sottile raggio di luce che donava speranza ai reclusi. La notte era passata. Un nuovo giorno era iniziato, e ciò significava che erano sopravvissuti al precedente.

Ma anche quel giorno cominciò con un grido. Un grido che risuonava come se la voce tentasse di abbandonare quel corpo martoriato. Una fuga fuori, via dal luogo del dolore.

Ed ecco che dal cortile arrivarono ancora altre grida: le guardie ucraine le ruttavano dalle loro gole ubriache. Erano urla di incitamento, feroci come cani rabbiosi a cui avessero tolto la catena. Si conficcavano nei cervelli dei detenuti.

Pino prese la giacca e la tastò attentamente. Ci volle il suo tempo finché sotto la stoffa una leggera resistenza non si oppose alla lieve pressione delle sue dita. Non le avrebbero trovate, si fece coraggio. Con l’ombra di un sorriso si distese sulla branda. Con cautela, affinché le contusioni non gli facessero male.

Sotto di lui si mosse Stipe. Gemette quando girò il corpo sul fianco. Il giorno prima i sorveglianti l’avevano preso particolarmente di mira. Aveva la voce più forte. E la più bella.

L’aria stantia nell’angusto bugigattolo aveva un odore acido. Di sudore e di urina. Capitava che qualcuno non ce la facesse più a trattenerla quando lo picchiavano fino allo svenimento. Lì non disturbava più nessuno e quelli erano contenti quando uno crepava dentro ai suoi stessi escrementi. Era angusto, così angusto, che si riusciva a malapena a respirare, ma erano tra di loro, e nessuno di loro, che il destino aveva così malignamente unito, aveva più di venticinque anni.

Forse l’avrebbero lasciato andare. Forse l’avrebbero lasciato andare persino ora. Aveva desiderato costruire case. Alte e imponenti come l’Empire State Building a New York. Ma lui non avrebbe mai visto New York, mai avrebbe messo piede sul suolo americano. Paese nemico adesso. Eppure là c’erano i migliori architetti. Persone che costruivano già il futuro. Lui invece giaceva in un’angusta baracca di assi che era stata costruita dentro il vecchio capannone di una fabbrica. I tedeschi erano bravi progettisti, quando si trattava dell’architettura della morte. E quando si trattava di sottrarre il futuro a mezza Europa. Perfezione dell’annientamento.

Fuori si alzarono altre voci. Un abbaiare maestoso – nient’altro che questo considerava Pino gli ordini urlati in quella lingua dura, sconosciuta – echeggiò attraverso il cortile dell’edificio di mattoni, e lo strepitio degli stivali sulle pietre, mentre i soldati correvano per l’appello mattutino, rafforzò l’agitazione montante.

«Vengono a prenderci» disse Stipe da sotto. Allungò la testa e Pino poté leggere sul suo volto la paura dell’incerto. Nessuna luce nella voce e nessuna negli occhi. Due punti morti su un volto spento, dalla muscolatura floscia, ma non rilassata.

«Anch’io ho paura» disse Pino, per poi aggiungere: «Ma presto passerà. Poi saremo liberi». Sorrise, e le sue labbra tremarono, come se si difendessero da quella bugia. Anche il suo cuore tremò, come se intuisse il prezzo della libertà. Fuori l’aria e pure il suolo tremavano, tremava semplicemente tutto.

La notte Pino Robusti l’aveva trascorsa in bianco, aveva riflettuto su tutto ciò che avrebbe ancora voluto dire, su tutto ciò che avrebbe ancora voluto fare, su ciò che avrebbe voluto dire a Laura, su ciò che avrebbe voluto fare con Laura. Vide il suo volto. Pensò al suo profumo, alla sua pelle morbida. Sperava che presto lei avrebbe cominciato una nuova vita.

Pensò ai suoi genitori. Per loro non ci sarebbe stata nessuna consolazione. Avrebbero dovuto trascinarsi dietro il lutto per il resto della loro vita. Si sentì in colpa, perché aveva lasciato che le cose arrivassero fino a quel punto, perché non aveva provato a fare marcia indietro, a salvarsi. Perché essere un prigioniero politico, uno che si era opposto a quel regime, che aveva combattuto con la sua stessa vita contro i tedeschi, l’aveva riempito d’orgoglio. Lo stesso valeva per tutti gli altri lì. Se solo non avesse avuto quella paura mortale…

Il ragazzo nella cella accanto – Pino gli dava sui sedici anni – aveva piagnucolato tutta la notte. Aveva chiamato più volte i genitori. Capiva poco lo sloveno, ma chiunque avrebbe compreso a chi era rivolta quella lamentosa supplica. Gli altri avevano cercato di consolarlo, con voci roche avevano tentato di convincerlo a tranquillizzarsi e agito come se si fossero già lasciati tutto alle spalle. Come se il terrore diminuisse quando se ne ha esperienza.

La porta si aprì di colpo. Con uno schianto veniva spalancata una porta di legno dopo l’altra. Uscirono uno dopo l’altro, come avevano già fatto gli ultimi giorni. E questo già da settimane. Settimane che significavano il passaggio a una nuova vita, dopo che Pino era stato così brutalmente strappato alla vecchia. Per quanto stessero in ordine, allineati come soldatini di stagno, le guardie li colpivano coi bastoni e ordinavano di stare dritti, e in riga. Li insultavano e li coprivano di male parole. Non bisognava capire il tedesco, il tono bastava come offesa. «Saubande! Elendes Pack, verfluchtes!» («Banda di delinquenti! Marmaglia miserabile, maledetta!» – N.d.T.).

Quello che stava dietro a Pino, a cui una delle guardie aveva dato uno spintone sulla schiena, gli urtò la spalla e Pino dovette fare un passo di lato, cosa che gli fruttò di nuovo una bastonata da parte di un altro sorvegliante. Si rimise velocemente in riga. Ancora dentro di lui balenò per un attimo l’idea di difendersi, di opporsi alla costrizione. Di mettersi davanti all’SS e di guardarlo dritto in faccia. Con un bagliore negli occhi gli avrebbe detto sorridendo: “No!”.

Ma poi l’avrebbero trascinato via dalla fila e l’avrebbero picchiato di nuovo, finché non avesse perso i sensi e non fosse nuovamente finito tutto. Avrebbe dovuto aspettare un’altra volta nella cella.

Il corteo di detenuti svoltò dal corridoio nel grande cortile. La luce accecava gli uomini dopo le lunghe ore trascorse nell’oscurità. Alcuni si tenevano le mani davanti agli occhi per ripararsi. Anche Pino strizzò gli occhi. Inspirò l’aria che profumava di primavera. Pensò ai primi fiori gialli sul terreno pietroso del Carso, al profumo di salvia portato dal vento nei villaggi vicini. Videro il muro, che era pieno di fori di proiettili. Istintivamente gli uomini si strinsero come le bestie in un gregge, che premute l’una all’altra sperano di superare un minaccioso temporale.

Il sole infiammava i mattoni rossi dell’ex fabbrica, e si rifrangeva sulle finestre appannate, là dove ancora c’era il vetro. I boia avevano acceso un altro fuoco. Ormai da giorni dalla ciminiera saliva fumo nel cielo. Poi uno degli aguzzini gridò: «Marsch, marsch, ihr Banditen, in Zweierreihen antreten!» («Marsch, marsch, criminali, in fila per due!» -N.d.T.).

L’Empire State Building era l’edificio più alto del mondo. Per trecentottantuno metri si stagliava nel cielo, sfiorando con l’antenna, con quattrocentoquarantatré metri, addirittura le nuvole. Niente al mondo che fosse stato creato dall’uomo era così alto. Una tale altezza era raggiungibile solo perché per la costruzione era stato usato un cemento appositamente rinforzato con del ferro. Era stato edificato in stile art déco e nel tempo da record di nemmeno due anni, progettato dallo studio d’architetti Shreve, Lamb e Harmon. Ripeteva tra sé questi dati, come se stesse per essere interrogato. Eppure forse quell’edificio non l’avrebbe mai visto, e non sarebbe nemmeno mai stato interrogato su di esso. Questo sembrava delinearsi ora con una subdola certezza.

Il portone venne spalancato. Il portone che significava la via verso la libertà o la via verso la prigionia. A seconda del lato da cui lo si guardava e in quale direzione si andava. Una camionetta verniciata di grigio entrò nel cortile. Pino respirò profondamente. Forse avrebbero fatto di nuovo una gita.

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