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Bruno Montesano anterima. Israele-Palestina Oltre i nazionalismi

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Il ritorno dell’antisemitismo: “Questo uso distorto dell’accusa di antisemitismo, oltre a permettere di legittimare come non antisemita la destra postfascista, ha contribuito alla disumanizzazione dei palestinesi e alla repressione del movimento contro la strage israeliana”.

Il problema della Palestina come nazione: “Desiderare che i palestinesi possano autodeterminarsi come tutti gli altri gruppi che hanno voluto farlo implica chiedersi, una volta che ciò sia realizzato, cosa avverrà in seguito, dati i problemi che la sovranità nazionale pone una volta che viene edificata”.

La mentalità palestinese: “Diasporicamente o no, essere palestinese è il disgregatore per eccellenza: rovina o modifica un copione prestabilito. Esistiamo e la nostra esistenza rappresenta un affronto esistenziale. Finché esistiamo, sfidiamo diverse falsità, non ultima quella secondo la quale, per alcuni, non siamo mai esistiti. Che decenni fa, nella deliziosa e scintillante distesa del nulla, nacque un paese – per diritto di nascita, come qualcosa di dovuto. La nostra stessa esistenza sfida una narrativa formidabile e militarizzata.”.

L’imbarazzo israeliano: “Durante il fine settimana, molti ebrei dichiaratamente antisionisti hanno scoperto di non potersi unire alle proteste di solidarietà perché avevano bisogno di qualcosa che le proteste non potevano fornire: uno spazio per piangere i morti israeliani, per essere a disagio con la propria posizione nell’evoluzione della situazione politica. È una situazione che nessuno di noi ha mai affrontato seriamente prima, nel mezzo di una lunga storia enormemente sproporzionata nel numero dei morti. E ora, quando ne abbiamo più bisogno, ci troviamo a lottare con la mancanza di un vocabolario emotivo e politico”.

È in libreria Israele-Palestina Oltre i nazionalismi di Bruno Montesano (Edizioni E/O 2024, pp. 128, € 10).

Bruno Montesano è dottorando presso le Università di Torino e Firenze, ha conseguito un master alla School of Oriental and African Studies (Soas) di Londra. Si occupa del rapporto tra razzismo, istituzioni ed economia. Collabora con “Il Manifesto” e con la rivista “Gli Asini”.

Attraverso il contributo di diversi scrittori, giornalisti e studiosi provenienti da Europa, Stati Uniti, Palestina e Israele, il libro esplora il conflitto israelo-palestinese da una prospettiva antinazionalista, evidenziando la necessità di superare le varie forme di deumanizzazione. Nonostante il massacro del 7 ottobre e la grave punizione collettiva inflitta da Israele a Gaza, insieme all’incremento della violenza da parte dei coloni in Cisgiordania, sarebbe facile cadere in forme estreme di odio, spesso di natura razziale, scegliendo quali vittime privilegiare. Tuttavia, nonostante l’asimmetria di potere e le condizioni di oppressione, occupazione e discriminazione affrontate dai palestinesi, l’evento del 7 ottobre ha risvegliato profonde paure sia nella società israeliana che nella diaspora ebraica.

Una questione che continua a insanguinare il Medioriente mentre l’impossibilità di trovarne una soluzione è il sintomo della nostra bancarotta morale e intellettuale.

Carlo Tortarolo

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Sono tornata negli Stati Uniti due volte dalla mia nascita. Una volta da bambina, dopo l’invasione irachena del Kuwait. Poi, di nuovo, per la scuola di specializzazione. Ho avuto il privilegio di avere una giovinezza – da adolescente e giovane adulta – in paesi dove essere palestinese era abbastanza comune. L’identità poteva essere pesante, ma non veniva criticata. Non avevo dovuto imparare le politiche della rispettabilità derivanti dall’essere una palestinese adulta. Ma poi ho imparato velocemente.

La sfida dei palestinesi è di essere accettati o venire condannati. Il compito dei palestinesi, come abbiamo visto nelle ultime due settimane, è quello di sottoporsi a una prova per ottenere empatia e compassione. Per dimostrare che ce le meritiamo. Per guadagnarcele.

Nelle ultime due settimane ho visto attivisti, avvocati e professori palestinesi essere provocati e interrotti in diretta, se non messi a tacere del tutto. Devono supplicare per avere una giusta e corretta copertura mediatica. Devono supplicare i giornalisti affinché svolgano i più basilari compiti del loro lavoro. Allo stesso tempo, i palestinesi in fuga dalle bombe sono stati erroneamente identificati. Anche quando sono sotto attacco, devono essere disconosciuti e passare come un altro popolo per suscitare umanità. Anche nella morte non trovano riposo: i palestinesi vengono sepolti in fosse comuni o in vecchie fosse scavate per fare spazio, e ancora non ce n’è abbastanza.

Come se non bastasse, il massacro palestinese è troppo spesso presentato in modo astorico, slegato dalla realtà: non viene attribuito alle armi e ai missili, all’occupazione, alla politica. Per ottenere compassione per i loro morti, i palestinesi devono prima dimostrare la loro innocenza. Il vero problema della condanna è il tono pacato e subdolo delle domande che la accompagnano: si presume che i palestinesi siano violenti – e meritevoli di violenza – fino a prova contraria. Si presume che la loro morte sia giustificabile fino a prova contraria. Che peso ha la parola di un palestinese contro un apparato che indaga su sé stesso, che si assolve dai crimini di cui è accusato? Cosa può fare contro un governo i cui rappresentanti hanno definito i palestinesi “bestie umane” e “animali selvaggi”? Quando un uomo ben vestito può dire sfacciatamente e senza batter ciglio che non esiste un popolo palestinese?

Si tratta, ovviamente, di una strategia straordinariamente efficace. Un massacro non è un massacro se coloro che vengono massacrati sono colpevoli, se sono stati silenziosamente ed efficacemente disumanizzati – nei media, attraverso la politica – per anni. Se nessuno è un civile, non ci può essere nessuna vittima.

Nel 2017 ho pubblicato un romanzo su una famiglia palestinese (Salt Houses, HarperCollins 2018, ndr). È stato pubblicato da un buon editore, ha ricevuto critiche molto positive ed è stato fatto un tour di presentazione. Ho parlato a tavole rotonde e a club del libro. Ho risposto alle domande dopo le letture. Ma c’era un ritornello che continuava a risuonare. La gente continuava a sottolineare quanto fosse umana la storia. Hai umanizzato il conflitto. Questa è una storia umana.

Naturalmente, la letteratura e le arti svolgono un ruolo cruciale nel fornire il contesto, espandendo la nostra empatia e concedendoci scorci su altri mondi. Ma ogni volta che mi veniva detto che avevo umanizzato i palestinesi, dovevo reprimere la domanda che questa affermazione sollevava: cosa erano stati prima?

Un paio di settimane fa, al lavoro, qualcuno ha chiamato i palestinesi per nome e ha parlato dei settant’anni del loro dolore. Mi sono seduta tra dozzine di colleghi e mi sono resa conto che mi tremavano le labbra. Piangevo ancor prima di capire cosa stesse succedendo. Sono fuggita dalla stanza e mi ci sono voluti dieci minuti per smettere di singhiozzare. Non ho capito subito la mia reazione. Nel corso degli anni, ho affrontato riunioni, aule e altri spazi istituzionali in cui i palestinesi non venivano nominati o venivano indicati solo come terroristi. Ho raggiunto l’età lavorativa in un paese in cui le persone perdevano qualsiasi cosa parlando di Palestina: posizione sociale, incarico universitario, incarichi giornalistici. Ma alla fine, non sono il silenzio o la cancellazione a sopraffarmi, ma l’empatia. Il semplice nominare la mia gente. Il sempre più diffuso riconoscimento che le forme di liberazione sono collegate. Gli spazi di solidarietà ebraico-palestinese. Ciò che è diventato controverso: il semplice parlare ad alta voce della sofferenza palestinese.

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