“Il mare non aspetta. Viaggio emotivo in Norvegia” di Valentina Fortichiari (Oligo editore, 2024 pp. 112 € 13.00) è un incantevole e poetico viaggio intorno alla formazione affettiva del rapporto tra padre e figlia, espresso nella qualità interpretativa delle attività del nuoto e della scrittura. Un tenero e commovente elogio di una biografia influenzata dalla risorsa salvifica dei legami sentimentali. L’autrice impiega la materia simbolica dell’acqua, tematica ricorrente nei suoi romanzi, per comporre l’andamento trasparente del suo racconto, immerso nella destinazione della bellezza e nella natura spettacolare della Norvegia, nella nitida e indelebile sequenza del resoconto intimo e privato del vissuto. Ricostruisce una parte significativa e preziosa della propria esistenza attraverso il carattere soffuso e premuroso della memoria, intrecciando la motivazione romantica delle esperienze sensibili con la solida struttura del mondo lavorativo editoriale della scrittura (ambiente che l’autrice ha frequentato confrontandosi, per mestiere, con le case editrici). Valentina Fortichiari ricerca l’armonia e la purezza dei ricordi, asseconda le sensazioni di amore e di esitazione, concentra l’attenzione sulla dimensione soggettiva e interiore della trama intimista, come un rifugio di protezione, definisce l’estensione del passato come la risposta spirituale della testimonianza inestinguibile del cuore, spiega il sostegno delle emozioni.
Il libro ospita il valore miracoloso del respiro emotivo, racchiude l’essenza viscerale del tessuto narrativo nella similitudine figurativa di un peregrinare acquatico dove il flusso delle vicissitudini è ogni volta fonte e origine di rinascita per l’esistenza. Valentina Fortichiari stimola, nel suo cammino riflessivo, l’osservazione del vincolo umano elaborato nel tempo infinito della viva presenza, esplora il patrimonio intangibile degli scenari evocati nella residenza della storia e nella traccia dell’anima, evolve attraverso la piena consapevolezza di se stessa, nella crescita personale, risponde alla luce dall’ombra delle domande, interiorizza l’intensità, oltrepassando l’inquietudine. “Il mare non aspetta Viaggio emotivo in Norvegia” dichiara il richiamo ipnotico e sensoriale per l’acqua, fil rouge di una direzione esistenziale che favorisce la percezione di distensione e serenità in risposta al cedimento e alla malinconia, in conseguenza di dolorose avversità. Valentina Fortichiari restituisce la preziosa conoscenza del proprio inconscio e degli stati d’animo annotando gli avvenimenti più significativi per far chiarezza dentro di sé e dentro la propria ricostruzione, indaga la possibilità di valutare la tentazione irresistibile delle attese e identifica le abitudini familiari come strumento indimenticabile di un orizzonte in cui sentire le affinità del pensiero e cullare la dolce consuetudine dei sentimenti. Amplifica l’ondulazione intonata della scrittura per una equilibrata esigenza della coscienza, cura la cicatrice della nostalgia, ascolta la carezza dell’acqua, sfiorando nel segreto di ogni pertugio la versatilità dei fondali più aspri, per raggiungere, come nel nuoto, il senso di libertà, nel contatto con se stessi. Lo stile diretto e colloquiale di Valentina Fortichiari abbraccia la resistenza dell’umanità attraverso le reminiscenze dei tormenti e le purificazioni delle consolazioni. Nella fluidità discorsiva la sua parola s’infrange come spuma impetuosa verso la solitaria e composta espressione della saggezza e dona l’intensa partecipazione alla vita.
Rita Bompadre
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“Hai ancora la piccola cicatrice sotto il labbro? In realtà te lo chiedo perché non si nota più”.
Mio padre mi fa questa domanda seduto sul divanetto, la gatta sulle gambe. Ha incamerato freddo durante la nuotata, sistema un poco di legna nel camino e lo accende. Lo raggiungo con un asciugamano a turbante sui capelli.
“Guarda tu stesso” rispondo.
“In effetti, è rimasto un minuscolo trattino sotto la bocca – osserva – quasi una lineetta, quello con cui si iniziano i dialoghi. Una sola, un dialogo sempre aperto, che non si chiude – starà alludendo a noi? mi domando – La ferita si è rimarginata ma ci mise un tempo infinito, ricordi?”
“No, questo l’ho dimenticato, papà”.
Si è alzato per mettere a bollire l’acqua di un tè. Per lunghi minuti fissiamo il fuoco, in silenzio:tronchi incandescenti cadono con fragore, mandando scintille che spaventano la gatta. Kaira (questo il nome che mio padre ha scelto per lei, significa pace) scappa come un furetto e va a nascondersi nella stanza attigua.
Lo so come mai papà è arrivato a questo ricordo. Spesso, quando fissa il vuoto, rivede il volto della mamma. In lui la ferita del cuore non è mai guarita;a me è rimasto quel trattino quasi invisibile sul mento, un marchio, un memento che vuol significare mille cose, soprattutto la mia amicizia ininterrotta con Mathilda, uno di quegli affetti unici dell’infanzia che permettono di superare gli anni e di sentire che non sei una bambina del tutto sola. Dopo l’asilo, dove la incontrai la prima volta (ero inappetente, lei divorava anche il mio pranzo perché non mi sgridassero, e mi restituiva il piatto che pareva appena lavato), dopo i lungi anni a scuola, tanti, sempre insieme, sino alla prima adolescenza, si era formata tra noi un’affinità singolare. Probabilmente io pensavo a lei come a una sorella, una gemella, e lei altrettanto. Ma non è mai chiaro nell’amicizia che cosa esattamente l’altro pensi di noi.
Quel fatidico giorno a Oslo, quando nel suo giardino, d’estate, nel tepore del primo pomeriggio, io salii sul tavolino di granito per mimare una danza, e il mio piede finì nel vuoto, la caduta rovinosa fu, più che un dramma, una specie di patto di sangue tra noi due:lei cercò di medicarmi e si sporcò le dita di rosso. Il sangue pareva non arrestarsi. Ci stringemmo le mani sporche di sangue, ma era soltanto il mio. La cicatrice, mai scomparendo del tutto, mi avrebbe riportato a lei ogni volta che mi sarei guardata allo specchio. Non ci saremmo mai dimenticate;ma dal giorno in cui lei ha messo chilometri di distanza fra noi, andando a vivere a Nizza, è sceso il silenzio.
Posso ricordare quei momenti con lucidità. Persino il volo, le mie mani che cercano appigli nel vuoto, e il mio mento che finisce sullo spigolo del seggiolino di pietra, gli incisivi inferiori come una lama, il sangue che scorre. Non fu quell’episodio, in sé banale, a farmi superare repentinamente il confine tra infanzia e adolescenza, proiettandomi nel mondo adulto dove non ero ancora pronta a metter piede. Era ciò che gli stava intorno, i fatti che lo precedettero;la memoria volle prendersi la sua parte con una ferita sul volto, destinata a diventare sempre più insignificante a confronto dell’impronta emotiva che scavò dentro di me.