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Enrico Macioci. L’estate breve

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Se c’è una caratteristica che amo della scrittura di Macioci e che avevo già apprezzato sia nel precedente Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia (sempre per TerraRossa) ma anche in Lettera d’amore allo yeti (Mondadori, 2017) è quella sua vena malinconico/nostalgica in grado di trasportarti in quel punto sospeso della giornata che non è ancora tramonto ma nemmeno pomeriggio. L’ora d’oro dello sbrilluccichìo dei pulviscoli in controluce, delle ombre che acquisiscono una profondità diversa, dei riverberi dilatati di una strofa distorta, un attimo che pare infinito in cui gli oggetti, anche i più banali, inducono a riflettere su un tempo passato di pura suggestione.

L’estate breve nasce dalla riscrittura di Breve storia del talento, pubblicato da Mondadori nel 2015, qui rimaneggiato soprattutto nella seconda parte, completamente riscritta dall’autore a quasi dieci anni di distanza dalla sua prima edizione. Dieci anni in cui la vita ha fatto il suo corso, con il suo bagaglio di legami, traguardi e amarezze, dieci anni che inevitabilmente hanno influito e modificato il modo di scrivere ma soprattutto di sentire, dello scrittore aquilano.

«Viviamo in attesa di quel giorno anche se non lo sappiamo, anche se non ce ne rendiamo conto; viviamo il resto dell’anno in funzione del giorno che sconfigge più di ogni altro la notte, che più di ogni altro ci illude di essere eterni, più luce, più calore, più speranza, e infine quel giorno arriva e va via e dal giorno successivo si ricomincia a scendere, a cadere, come l’Etrusco calciato da Michele era caduto giù nella rete che non c’era; ogni anno, ogni vita è un’ascesa e poi una discesa e poi ancora un’ascesa e così via, all’infinito. Forse ci illudiamo o forse invece no. Forse la verità sta oltre la menzogna.»

Eccoci quindi al cospetto un romanzo breve (o racconto lungo), che vive di due stagioni complementari: da un lato l’infanzia del protagonista tredicenne, le estati trascorse tra il campetto di calcio, a sfidare la fisica a colpi di pallone e la cameretta con la tapparella abbassata quasi del tutto durante la canicola pomeridiana, la porta socchiusa e il corpo concentrato nella scoperta di una sessualità che attrae e spaventa allo stesso modo.

In quest’intima epopea dell’adolescenza, l’inevitabile incontro col mentore si riflette nella figura del nuovo arrivato al condominio Prato Verde: Michele, adolescente adottato da una coppia senza figli, di un anno più grande rispetto al nostro, che in Colombia si chiamava Miguel ma del cui passato preferisce non far menzione.

Un ragazzo che «viveva solo nel presente, con un’urgenza quieta, era un ragazzino precocemente consapevole. Michele sapeva chi era prima ancora di averlo capito, lo sapeva con la carne e con il sangue. La sua ritrosia custodiva la saggezza di chi è nato possedendo qualcosa di già intatto, di concluso.»

Michele, consapevole della sua superiorità fisica e atletica, che non cede al patetismo di lasciar vincere il nostro bensì lo forgia nella limpidezza di un confronto all’ultimo dribbling, consapevole che «la maggiore bravura di un altro non annulla la nostra, però non c’è abbastanza spazio nel medesimo tempo e nel medesimo luogo per due abbastanza bravi nella medesima cosa: uno dei due deve cedere.»

Ma una sconfitta sportiva non è sinonimo di rinuncia al talento, in questo Michele sembra possedere una sensibilità quasi profetica nel prevedere un percorso “altro” per il protagonista, le cui parole (e la dote poetica coltivata nella discrezione delle mura domestiche), saranno il rifugio all’improvviso confronto con una morte inaspettata.

Come il buon King insegna dai tempi del glorioso Stand by Me – Ricordo di un’estate, non c’è formazione senza la scoperta di un cadavere e un’infatuazione non ricambiata per la fiamma della porta accanto. Anche questo significa crescere: disvelare il palcoscenico dell’esistenza accettando il fatto che non tutto andrà come previsto, che si può anche fallire, che non c’è nulla di male nell’accontentarsi e, soprattutto, che il pericolo può nascondersi nelle cantine di ogni palazzo.

Si diceva in apertura di un romanzo che vive di una doppia stagione, in questo la seconda parte acquisisce un ulteriore livello di profondità, mettendo in scena un dialogo intimo con l’autore che ritorna a Prato Verde spogliato di ogni frenesia adolescenziale, ora uomo, forse arreso, forse deluso ma desideroso di provare un’ultima volta quel brivido fulgido della stagione più importante e magari fare pace con i fantasmi di ciò che non è stato.

Chi siamo oggi? Chi eravamo? Cosa abbiamo ottenuto? Cosa avremmo potuto ottenere?

Fiction o autofiction, poco importa, quel che emerge da questo romanzo è un estratto di vita che brilla di un temperamento genuino. Mi piace pensare che tornare a scrivere di quell’Estate breve possa essersi rivelato un rito catartico per l’autore, di certo lo sarà per il lettore che nel leggere di questi ragazzi in divenire si sentirà in qualche modo a casa, cullato dai riflessi di quell’ora dorata in cui le parole, anche le più amare, hanno il potere di scaldare l’anima.

Stefano Bonazzi

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L’estate breve

Enrico Macioci

TerraRossa Edizioni

15,00 euro — 128 pagine

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