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Antonello Saiz racconta “Le città di carta” di Dominique Fortier

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 «Il mondo. Il mondo è piccolo come un’arancia. Incredibilmente complicato e di una semplicità assoluta. Il mondo può essere rimpiazzato, ricreato, annientato dalle parole. Esiste dall’altro lato della finestra: in altre parole, non esiste. Ciò che esiste: la fiamma della candela, il cane ai suoi piedi, le lenzuola di cotone, i fiori di gelsomino appiattiti tra le pagine dei dizionari, addormentati tra la parola gardenia e la parola giardino, e poi le braci nel focolare, le poesie che palpitano nei cassetti. Il mondo è buio e la stanza è bianca. Sono le poesie a illuminarla.»

Dominique Fortier, Le città di carta, Alter Ego 2020

Venerdì 9 ottobre sulla pagina Facebook di Book Advisor, assieme a Erika Repetto, ufficio stampa della casa editrice Alter Ego, abbiamo raccontato la collana “Specchi”, che da lunedì 21 settembre si è arricchita del primo titolo di letteratura straniera. Infatti in quella data è stato pubblicato, impreziosito dalla traduzione di Camilla Diez, il romanzo Le città di carta di Dominique Fortier.

Giovane editor e traduttrice che vive a Montrèal, nel Quèbec, Dominique Fortier è alla sua sesta prova narrativa con questo romanzo, che in Francia è tra i quattro finalisti del Prix Renaudot 2020. La pubblicazione di romanzi di autori contemporanei stranieri è la nuova importante tappa della casa editrice di Viterbo, apparsa sul mercato editoriale nel 2012, grazie alla tenacia di Danilo Bultrini e Luca Verduchi.

In concomitanza con il Salone Internazionale del Libro di Torino sarebbe dovuto uscire il primo titolo per la collana “Specchi”. Poi il salone è saltato per l’emergenza sanitaria ed è slittato a settembre il lancio di questo piccolo gioiellino di carta, prezioso già dalla copertina. Quelli di Alter Ego hanno fortemente voluto includere il titolo nelle scelte editoriali perché letteralmente rapiti dalla scoperta e dalla lettura. Stessa cosa che è accaduta a me lo scorso agosto, quando mi sono visto recapitare a Tramutola, in Basilicata, a casa di Hilde, un scrigno poetico che ha accompagnato quelle giornate di vacanza dalla libreria.

Partendo dai luoghi in cui ha vissuto, l’autrice tratteggia una inusuale biografia di una delle più grandi voci poetiche di tutti i tempi: Emily Dickinson. Dico “inusuale” perché non si racconta solo della poetessa statunitense, ma si finisce per fare un vero e proprio viaggio intorno a sé, ponendosi alla fine interrogativi profondi sul difficile mestiere di scrivere e anche sul come possa essere complicato avere una incredibile capacità immaginifica, allora come pure di questi tempi.

L’autrice canadese ci porta nelle stanze che Emily ha abitato, come la casa di Amherst, Massachusetts, piccolo borgo rurale vicino Boston. È nella camera da letto di questa villa, le cui grandi finestre affacciano sugli alberi del parco circostante, che la Dickinson decide di vivere di interiorità scrivendo le sue 1800 poesie. Della sua vita non sappiamo molto: “L’abisso non ha biografi” scrisse in una lettera. Ma la Fortier, in un modo del tutto originale, prova a costruire intorno a poche notizie tutto un mondo.

Un romanzo che racconta molto di Emily Dickinson, ma non solo. Racconta molto dei luoghi in generale, di quelli amati e di quelli che si sono abitati. Racconta soprattutto dei luoghi e delle case che hanno abitato noi.

Esprime tutto questo Dominique Fortier, potremmo dire con un piccolo aiuto di Emily Dickinson. E già perché, mentre si racconta dell’esistenza della Dickinson, nella narrazione si alternano pagine di un presente che riguarda l’autrice, il suo mondo, i suoi sogni, la sua scrittura.

Emily Dickinson era nata ad Amherst il 10 dicembre 1830 e, da un certo momento in poi, trascorse la sua vita quasi come una reclusa tra le mura della casa di famiglia, pubblicando solo sette poesie in forma anonima. Usciva molto raramente e a volte le capitava di parlare con i visitatori da dietro una porta. Dopo la sua morte, nel 1886, fu la sorella Lavinia a scoprire per caso, nella sua stanza, centinaia di poesie dentro una scatola, scritte su dei foglietti ripiegati in tanti pacchetti cuciti con ago e filo. Nel 1858 Emily aveva iniziato a legare le poesie in quel modo. Trentadue anni dopo, nel 1890, venne pubblicata la sua prima raccolta di poesie, alla quale sarebbero seguite negli anni un numero infinito di edizioni in tutte le lingue.

Nel romanzo, in maniera molto delicata e con una scrittura poetica e riposante, si mettono insieme tutte queste immagini, poi citazioni e invenzioni. Alla fine Dickinson e Fortier arrivano a dialogare tra loro. Un vero e proprio romanzo costruito per immagini: al ritratto autentico e moderno della scrittrice del cuore, che passa gran parte del suo tempo a guardare il mondo da una finestra in una camera di pochi metri quadrati e con l’urgenza addosso di scrivere su qualsiasi pezzo di carta, fa da contraltare la vita della Fortier con i suoi luoghi, la sua infanzia e la sua vita da adulta.

Mescolando la propria vita a quella della Dickinson si indagano i temi della solitudine, dell’isolamento, della reclusione volontaria, del silenzio, della morte, del mistero della natura. Sono i versi semplici e dalla bellezza austera della Dickinson a interrogarci su quello che è il senso ultimo della scrittura, sugli obiettivi che la letteratura deve porsi, su cosa è possibile conservare nel tempo, sul ruolo stesso della poesia. Il teorema che Fortier vuole dimostrare è che Dickinson decide con consapevolezza di vivere in solitudine, attuando scelte di sconfinata modernità per l’epoca, e che nel suo modo di essere appartata riesce a percorrere anche i luoghi che abita, unicamente attraverso le parole.

Le tante parole che in eredità si lasciano e possono creare un ponte verso il futuro: alla ricerca di parole di origine e di esperienza. Una scelta moderna di parole femministe. Ma, si diceva, non mancano gli interrogativi. Bastano solo le parole? E cosa resterà delle parole dell’autrice? Emily sceglie le parole e, volontariamente, sceglie una forma di eremitaggio sociale, sceglie i libri e la sua stanza, pur di abitare dentro la sua casa di carta, dentro i suoi fogli, sceglie davvero di condurre una esistenza esclusivamente interiore attraverso la poesia.

Trascorre gli ultimi anni della sua vita da reclusa e sceglie di vivere di poesie con cui riempie i cassetti, ma che rifiuta di pubblicare accontentandosi di divulgarle solo nella ristretta cerchia di pochi intimi. Tra quelle mura di casa, una esistenza essenzialmente tutta interiore, tra giardini, piante da catalogare, fantasmi familiari e viaggi attraverso le pagine dei libri e la poesia e i luoghi e le città di carta, dentro cui trovare rifugio e sollievo.

Antonello Saiz

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