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Antonello Saiz racconta “Sangue di Giuda” di Graziano Gala

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«Nun era possibile ca dintr’a nu paise a cussì grande comm’ a Merulana non stava, nottetempo, nu televisore disponibbile: na cosa vecchia, sia chiaro, affittabbile, in permuta, in prestito, in pagherò, ca passare ‘a notte a consumarsi i talloni sull’asfalto non piace mai a nisciunu, men che mai a uno ca ‘a casa ‘a tiene, anche se al momento inaggibbile causa silenzio.»

Graziano Gala, Sangue di Giuda, minimum fax 2021

Da oltre un anno faccio dirette Facebook presentando libri. Spesso mi capita di creare una empatia particolare con l’autore o l’autrice del libro in esame. Ma non mi era mai capitato di emozionarmi in diretta e dover trattenere le lacrime, per le parole e il buonsenso che vi era contenuto.

È accaduto con un ragazzo nato nel 1990 a Tricase, in provincia di Lecce, di nome Graziano Gala, mentre raccontava del suo libro pubblicato il 15 aprile scorso da minimum fax.

Avevamo aperto la diretta con la voce di Alda Merini che recitava Gli occhi di Milva. Un doppio omaggio: alla cantante scomparsa la settimana precedente e alla poetessa degli ultimi, degli offesi. Quest’ultima viene citata da Giuda, il protagonista del libro, nel quasi finale attraverso la poesia che termina con “sono altro, sono altrove”.

La novità di questo libro portatore di una storia commovente sta, senza alcun dubbio, nella scelta dei temi e nel racconto, che rivela una umanità dolente oltre che disperata. Ma soprattutto sta nel linguaggio e nella lingua sgrammaticata di Giuda, un misto sporco tra il pugliese (il salentino per essere precisi) e il campano, con innesti di lucano, calabrese e siciliano. Un miscuglio di dialetti, incroci e contaminazioni di termini, che hanno un qualcosa di miracoloso: il lettore, travolto dalla musicalità del testo, finisce per non avere necessità neanche di A lingua ca me port ‘ appresso, il piccolo glossario finale.

Dal Trentino alla Valle d’Aosta fino alla Sardegna si riesce perfettamente a comprendere il testo.

I riferimenti, gli echi e le influenze sono spesso espliciti in questo libro (come i versi della Merini o la scelta di chiamare il paese in cui è ambientata la storia Merulana, con un richiamo a Carlo Emilio Gadda). Altre volte sono più velati e il pensiero non può non correre a tutta quell’epica dei vinti che dalla novella Rosso Malpelo, di Verga, passa per Ciaula scopre la luna, di Pirandello, e arriva fino a Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, di Remo Rapino.

Il libro è strutturato in quattro parti (‘O televisore, E’botte, E’conseguenze d’e botte, Compromesso storico) e, accanto a un esergo importante – tratto da Nottetempo, casa per casa, di Vincenzo Consolo, ognuna di esse ha richiami importanti. E quindi ritroviamo il poeta latino Sallustio o il cubano Josè Martì, ma anche il lucano di Tursi, Albino Pierro, o la più contemporanea Mariangela Gualtieri o la giovanissima Gaia Giovagnoli, ma anche Fabio Stassi e Claudio Morandini.

«L’altra sera s’hann arrubbato ‘o televisore». La storia comincia con questa scomparsa. Un vecchio televisore Mivar sparisce dalla casa di Giuda, detto anche Giudariè o Giudariello dai paesani dopo che il vero nome di battesimo si è smarrito dietro alle imprecazioni di Santino, padre violento e manesco.

Insieme al televisore scompare la voce di Pippo Baudo. Una voce che è compagnia, ma che impedisce al silenzio di prendere il sopravvento e al fantasma del padre di tornare, uscendo dagli armadi e dalle credenze di casa. Un padre arrabbiato che è rimasto nella sua testa, insieme alle botte. Un padre che lo ha marchiato a fuoco con questo nome infame da delatore, il nome dell’apostolo traditore.

Il televisore e Pippo Baudo servono a Giuda per sopravvivere perché se il padre sente altre voci in casa, non esce dagli armadi per fargli del male e perseguitarlo.

Questa sua esistenza fatta di solitudine e miseria, Giuda la divide con il gatto incontinente Ammonio e con un cane, l’affamato Digiuni.

Una vita costruita sulla paura delle botte, su quelle voci e sulla diceria di essere un traditore. Giuda è un uomo anziano e senza denti, derubato e con addosso i segni del sopruso e delle botte. Un uomo che diventa emblema di tutta una umanità sconfitta e dolente.

Non è un caso che il libro sia dedicato a Lelio Baschetti e Antonio Cosimo Stano «per quel poco che può un romanzo».

Si tratta, nel primo caso, di un professore di fisica e matematica di liceo, chiuso e taciturno, che muore nel 2011, in Veneto, e il cui corpo mummificato viene ritrovato solo dopo sette anni, nel più totale disinteresse del paese.

Nel secondo caso si tratta di un ragazzo affetto da disabilità psichica e da sempre oggetto di scherno, che a Manduria, in provincia di Taranto, dopo l’ennesima aggressione di una baby gang si chiude in casa, spaventato, e si lascia morire.

Giuda diventa il paradigma di tutti questi uomini costretti, per la loro debolezza, a subire un Calvario lungo tutta una intera esistenza, che trascorre tra la solitudine e l’indifferenza di una intera comunità.

Anche Giuda diventa vittima di una inaudita crudeltà e la sua casa viene usata come quartier generale da un gruppo di malfattori affiliati a Mammoni.

La figlia di Giuda e il genero Gustavo lo trattano con disprezzo, gli impediscono persino di vedere e conoscere i nipoti; la moglie è stata ricoverata in un istituto di cura.

La sparizione del televisore e l’arrivo degli sgherri di Mammoni inducono Giuda a uscire di casa e a consumarsi i talloni sull’asfalto di quella cattiva periferia del mondo.

Frequentando il Golgota della sua sofferenza, quest’uomo dimenticato divide la sua malasorte con un altro scarto umano, il travestito Turi Bunna.

Uomini non amati e privati di ogni affetto, che la vita ha preso a botte e a cui altri uomini hanno confiscato tutto, meno che la dignità.

In fondo il povero Giuda, che racconta in commissariato la sua disavventura, ha desideri molto piccoli. Desidera molto poco, Giuda. Desidera il ritorno sullo schermo di Pippo (Baudo), misura di tutte le cose e più sacro di Sant’Antonio.

Quel furto del vecchio televisore diventa il pretesto per affrontare il proprio inferno e narrare ad alta voce l’urgenza di riavere il Dio che abita i televisori capace, con il potere della sua voce, di tenere lontani i Demoni.

Nonostante le botte, nonostante le umiliazioni, nonostante le ingiurie, Giuda fa resistenza con accanto pochi volti amici: il poeta alcoolizzato Ferlinghetti, che parla una lingua straniera; la vicina di casa del Nord, Monia, comprensiva commessa riccia; il piccolo Saverio e la sua bicicletta; infine il dolce Turi Bunna.

Un intero paese contro, con a capo il politico Mammoni e la ghenga dei suoi scagnozzi a imporre altri soprusi e a stordirlo di botte nello squallore di questa esistenza fragile. Eppure resiste, Giuda, con la sua sprovveduta bontà, con la sua ingenuità infantile e la nostalgia sconsiderata per quella moglie, Angiulina, che rivede in un finale emozionante.

Graziano Gala, forte di tante storie di paese, sceglie di dare voce alla rabbia e al dolore di Giuda attraverso una lingua e di dare corpo a un dialetto che diventa anima del nostro Sud.

La lingua di Giuda diventa la lingua del lettore, che è come ipnotizzato da essa. Lingua che serve, spesso con ironia, a raccontare un Meridione, la provincia, che solo chi ci è nato e vissuto può conoscere così profondamente. Un viaggio agli inferi, alla ricerca del nome perduto.

Bisogna volere molto bene a Giuda di Graziano Gala.

Gala, che nel suo racconto dal vivo non ha avuto pudori o censure nel raccontare anche il suo vissuto, quello di mamma Maria e di zia Graziella, e a saper mostrare questa bella sensibilità che fa ben sperare per il futuro e per la letteratura di domani.

. Leggere questo romanzo d’esordio è veramente una esperienza da consigliare a tutti i lettori forti.

Antonello Saiz

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