Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Arcipelago. Intervista a Ignazio Licata

Home / L'intervista / Arcipelago. Intervista a Ignazio Licata

Arcipelago è un pamphlet che raccoglie le narrazioni dell’attuale transizione digitale. La prefazione di Antonio Moresco che muove da estratti e suggestioni letterarie la dice lunga sulla postura visionaria e letteraria di Arcipelago. Ignazio Licata riprende un progetto iniziato con Umberto Eco e Furio Colombo e influenzato dall’impostazione di Pierre Levy, e lo vira nella direzione del nuovo digitale, dell’emergente fenomeno social. Si narra del desiderio politico che ha mosso l’autore a raccontare le omologazioni e le contraddizioni dell’arcipelago digitale che sembra rendere più immateriale ogni possibilità di protesta, ma svela anche come possa rivelarsi una chance ulteriore. Per quanto la formazione di Licata sia scientifica, la lingua è del romanzo e dell’arte, e il godimento è pura fascinazione per il racconto e l’immaginazione. E pure, precisione matematica e godimento artistico vanno di pari passo. E la visionarietà anarchica spinge sempre più in là l’orizzonte tecnologico, in una dimensione che se non fosse quella cartacea del libro avrebbe la forma di moltitudini ribelli. Va da sé il pessimo rapporto che l’autore intrattiene con la censura, sia quella dall’alto sia quella «autopoietica» che ci imponiamo facendoci sommergere dal rumore.. Arcipelago è un viaggio alternativo che mescola la mente di uno scienziato e quella dello scrittore che va oltre la propria specializzazione mettendo tra le parentesi del dubbio la pretesa assolutezza del paradigma scientifico. Infine il transito riformista, qui inteso in senso non istituzionale ma come processo di intervento qui ed ora che si determina andando e senza precostituiti dogmi, è il passo che l’autore auspica per accogliere le nuove emergenze, le divenienti miriadi di soggetti virtuali e desideranti, momento per momento, nell’inevitabile realizzarsi dell’improbabile…

#

Genesi e desiderio del tuo libro

La genesi è antica. Con Umberto Eco e Furio Colombo si decise di dedicare alcuni numeri di Golem al cambiamento delle modalità di far cultura e informazione con l’avvento del digitale. Una volta pubblicati gli articoli sono rimasti on line ma ogni volta che mi capitava di incrociarli avevo la sensazione di poter/voler dire altro. Se la mia vecchia impostazione doveva molto all’utopismo digitale di Pierre Levy, con l’emergere dei social e di nuove forme di omologazione, sentivo che era necessario spostare il discorso sulla possibilità di utilizzare la virtualizzazione come strumento olografico (“da qui a ovunque”) per quello che una volta si chiamava “contropotere”. Uso questo vecchio termine solo per suggerire un’idea di protesta non organizzata in strutture definite o istituzionali. Nella configurazione di spazi di eventi e attività che abbiamo scelto di chiamare arcipelago, ormai le espressioni di protesta non hanno più territorio materiale in cui muoversi e poter crescere. Il terreno è saturo. Ma il virtuale offre spazi nuovi e praticamente illimitati per lo sviluppo di movimenti di contestazione, per diffondere la conoscenza di pratiche alternative, per la denuncia di situazioni critiche e ingiuste. Non sto parlando di “rivoluzione” (termine che è ormai buio per i cocktail party) e per questo ho voluto usare il termine contropotere soltanto come tracce di un atteggiamento. La verità è che nell’arcipelago iperconnesso la retorica delle magnifiche e progressive sorti vanno assieme ai sintomi di disagio, non c’è dunque una contrapposizione tra due forze, ma un coinvolgimento plurale di tensioni diverse che si riposizionano continuamente. Abbiamo aziende che fanno proclami sull’ecosostenibilità e giovani che si battono per il cambiamento climatico, e per quanto questi segnali possano essere deboli rispetto a quelli politici tradizionali, la virtualità fa si che entrino in circolo, modificando il nostro modo di concepire l’arcipelago. Il desiderio è arrivato quando questa parte politica è emersa con chiarezza e determinazione.

Quando scrivi, godi?

Direi che è impossibile farlo altrimenti. C’è nel bel libro di Ricardo Piglia, L’ultimo lettore, una frase che chiude l’introduzione: «allora compresi quello che già sapevo: ciò che possiamo immaginare esiste sempre, in un’altra scala, in un altro tempo, nitido e lontano, come in un sogno». Ecco, scrivere è realizzare un progetto, una teoria, una storia in una scala e in un tempo che li trasformano in parole scritte, vettori verso altre menti e interpretazioni, forse è il contatto più intimo che si possa avere con altri esseri umani. È vero, c’è l’arte, la musica, la scienza, ma l’uso della parola è universale e l’impatto è fortissimo. Quando ci riesci, o ti sembra di esserci riuscito, la scrittura è qualcosa che nutri e che ti nutre. Un’esperienza assolutamente perfetta.

Un estratto del libro che è risultato particolarmente difficile o importante? Perché?

Sicuramente le connessioni per mostrare la virtualità virtuosa, e poi suggerire come un atteggiamento luddista (2.0: esiste un luddismo contemporaneo che pretende di cambiare lo status quo con un colpo di bacchetta magica new age ) non è una strada indicata, perché se vogliamo migliorare il mondo, frenare l’entropia, e diventare ognuno dei sensorium mundi, abbiamo bisogno di più conoscenza e tecnologia, non meno. Non si può tornare indietro, non avrebbe neppure senso.

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Moltitudini ribelli, e non organizzate. Come i giovani di extinction rebellion, friday for future, e anche gli imbrattatori di opere d’arte. Ma anche gli amici dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, in particolare Friederike (Fredi) Otto dell’Imperial College, che ha fornito la pistola fumante del legame tra eventi estremi locali e cambiamento climatico globale con due articoli straordinari.

Qual è il tuo rapporto con la censura?

Pessimo, la detesto e credo che alla fine crei più danni di quelli che vorrebbe evitare. Non credo neppure più di tanto nel “peer review” nella scienza, spesso una diatriba segreta tra convinzioni diverse. Penso che sarebbe meglio far girare tutto, e far sì che sia la gente a selezionare ciò che è fecondo e ciò che non lo è, à la Darwin! Ricordiamoci anche che non esiste solo la censura imposta dall’alto, ma quella che si crea per autopoiesi, il rumore informazionale del mondo che copre la situazioni realmente critiche.

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Per tanti anni sono stato un saggista sui temi scientifici (fisica quantistica, reti neurali, complessità, sistemica), ma qui i due aspetti confluiscono, c’è lo scienziato (che utilizza in alcuni casi il lessico della complessità e della computazione per evitare alcuni linguaggi politici desueti) e c’è l’autore che alla fine ha messo tra parentesi anche la scienza (perché non è un deus ex machina che fornisce automaticamente soluzioni) ma cerca, all’interno di un gran numero di possibilità, gli strumenti giusti.

Come risposta extra hai scelto di scrivere del tuo uso del termine riformismo:

La virtualizzazione, è sempre stata considerata un frutto della globalizzazione al servizio dei poteri, ma può essere al contempo anche il luogo (non luogo) che accoglie nuove istanze e moltitudini. Il riformismo è dunque qui inteso come un nuovo tipo di radicalità, che si determina step by step, qui e ora, irreversibilmente. Per contro, il termine “rivoluzione” è ormai puramente storico o del tutto grottesco (infatti è entrato nel linguaggio borghese par excellence, una sorta di divinità in cui non crede più nessuno). È chiaro che questo concetto di riformismo deve molto al municipalismo anarchico e altre correnti che hanno sempre sostenuto la necessità di agire sul problema locale invece che sognare universali bacchette magiche (poi è vero che nell’introduzione parlo molto di un riformista vero, il prof. Federico Caffè, di un grande radicale e matematico come Bruno de Finetti (scommettere sull’improbabile!) ma per mostrare virtù che il borghese ha scordato. E del resto Marx è definito qui “teorico dei sistemi”. No, alla fine non c’è alcun riferimento alla “dematerializzazione”, per un matematico non può esserci differenza tra una macchina di Turing e le sue mille implementazioni in yottabyte o quettabyte, semplicemente intendo che la virtualità può cambiare le cose più di una fucilata. Molto di più. Qui e là ho cercato di inserire qualcosa anche contro i nuovi luddismi 2.0, perché se vogliamo traghettare il mondo in questa ristretta ciambella tra Scilla e Cariddi di possibilità, abbiamo bisogno di più tecnologia, non meno.

#

Ignazio Licata, Arcipelago, prefazione di Antonio Moresco, Nutrimenti edizioni, 2023.

Click to listen highlighted text!