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Fabio Pante

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Mi sono formato tra risse e alcolizzati nei bar di provincia, leggendo D’Annunzio, i poeti francesi e certi romantici tedeschi… In una giornata di marzo entrai in una libreria, scoprii Guy Debord e Nadja di André Breton: quale amore estremo! Poco più che ventenne iniziai un viaggio attraverso l’Europa senza frontiere, vagabondando per circa dieci anni: volevo conoscere i poeti della mia generazione. Cominciò a germogliare in me l’idea che potesse esistere una letteratura europea che oltrepassasse le definizioni tradizionali, che potessero esistere poeti, romanzieri, filosofi, i cui nomi non fossero più legati alle loro nazioni madri. Poesia polacca. Poeti tedeschi. Scrittori slovacchi. Tutte queste associazioni sarebbero scomparse.

Conobbi i post-situazionisti del Nord, volevano distruggere l’industria della moda. Di notte, appendevano gigantesche poesie e manifesti sui muri delle loro città, mentre di giorno dirigevano, impassibili, le più importati riviste fashion del mondo. Facevano un sacco di soldi. Anche io volevo farne parte. Così iniziai ad appendere poesie e qrcode rimandanti a blog e video letture. Usai queste forme espressive assieme a un manipolo di poeti arabi durante le “loro” primavere: non m’importavano le cause, era fame di Storia la mia. Nel periodo in cui fiorisce il ciliegio giapponese ebbi la fortuna di fare l’esperienza disarmante di leggere poesie in pubblico, in contesti tradizionalmente diversi da quelli dove la poesia riconosciuta ama darsi: irrompevo a mezzanotte in piazze gremite di giovani alterati e iniziavo i miei show. In quegli attimi irripetibili vidi le folle farsi trasportare in modi del tutto irrazionali. Anche loro erano affamati. Era la vita strabordante delle forze più oscure e violente della natura umana. Nessun mondo di divinità olimpiche in difesa dell’illusione della vita: la società dello spettacolo si dava in ogni sua dirompente contraddizione, attraverso tutte quelle immagini che Nietzsche evocò più di cento anni fa ne La nascita della tragedia.

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