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Ferrovie del Messico. Intervista a Gian Marco Griffi

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Sei stato un riconosciuto scrittore di racconti, prima di diventare un romanziere in grado di travolgere migliaia di lettori, con una storia (Ferrovie del Messico) potente, innovativa, profonda e irriverente: quanto di reale usi per le tue storie, quanta (ulteriore) finzione vorresti riporre nei libri che scrivi?

Grazie per il grande romanziere (e per la risata). Per anni non ho scritto altro che racconti. Credo ancora che sia il mio habitat naturale. Ma a parte questo, rispondo alla tua domanda così: quando di una storia mi dicono che è tratta da una storia vera, immediatamente la storia perde per me interesse. Non dico che se mi trovo sotto gli occhi una storia tratta da una storia vera smetto di leggere, dico soltanto che per me è sempre più interessante l’invenzione pura rispetto alla fascetta che recita “tratto da una storia vera”. Non dico neppure che la letteratura possa essere migliore quando proviene dall’invenzione, dico solo che è così per me. Poi, ovvio, ogni storia d’invenzione poggia le basi su qualcosa di reale, siamo esseri umani e viviamo sul pianeta Terra, non possiamo fare altro che raccontare storie che riguardino il nostro punto di vista, le nostre debolezze e le nostre ricchezze. Quand’anche il narratore della storia che raccontiamo fosse un riccio, o un alieno, racconteremmo comunque qualcosa di noi, di noi esseri umani (d’altra parte è quello che deve fare la letteratura: raccontare gli esseri umani. Che altro?). Specificato questo: viva la finzione. Credo che la finzione, la menzogna, creino quella crepa nella realtà nella quale si inserisce la letteratura.

Nel tuo ultimo romanzo hai intrecciato storie che sembrano infinite, tutte diverse tra loro, ma ben congegnate, fino all’ultima pagina che compone un unico grande plot narrativo. Scrivendo, in questo modo così coraggioso, hai fatto omaggio a diversi generi letterari e ad altrettanti autori (classici e non). Ammesso che esista – concretamente – una definizione utile di confine narratologico, qual è quello che da scrittore preferisci oltrepassare quando narri una storia?

Non sono certo che esista un confine narratologico, o meglio il confine narratologico probabilmente è il limite ultimo dell’immaginazione, oltre al quale è impossibile spingersi, ma esiste un limite ultimo all’immaginazione? Il mio desiderio era quello di generare un’esplosione, narrativa e linguistica, e poco alla volta tentare di ricostruire i pezzi fino a rielaborare un’architettura complessa definibile come romanzo; un’architettura fatta di parole, ma ancor più di linguaggi, imperniata sulla stratificazione del linguaggio e sulla costruzione metaforica che riveste la storia e la sorregge.

Nel ruolo di scrittore, quali sono i tre autori classici da cui non vorresti mai separarti? E da lettore quali i tre autori contemporanei viventi a cui non rinunceresti per nulla al mondo?

Solo tre è molto difficile, sai? Dico i primi tre che mi vengono in mente: Joyce, Gadda, Beckett. E ho tenuto fuori Borges, per dire, e molti altri. Per quanto riguarda i contemporanei è ancora più difficile, sono troppi e non ce ne sono tre che spiccano sugli altri, ho tantissimi libri cui non rinuncerei, ma tre autori no.

Che legame hai con il cinema e i fumetti? E quali sono i tuoi autori preferiti di questi due medium narrativi?

Sono appassionato di cinema e di fumetti. I fumetti per dirla tutta sono stati la mia prima vera passione, dai Topolino ai fumetti della Bonelli fino alle cosiddette graphic novel. Mi piace Sergio Leone, mi piace Tarantino, mi piace la commedia italiana, mi piacciono i film di fantascienza, specie quelli con i viaggi nel tempo. Nei fumetti ho amato l’Alan Moore di Watchmen e il Maus di Spiegelman, il Poema a fumetti di Buzzati e soprattutto l’Eternauta di Oesterheld.

Ogni scrittore immagina un lettore ideale. O forse no. Prima del tuo ultimo tumultuoso romanzo esisteva per te questa figura mitica? E ancora: quando eri un autore poco conosciuto, il tuo lettore ideale come era fatto?

La figura di lettore ideale è cambiata nel corso del tempo. All’inizio pensavo che il lettore ideale fossi io, dall’altra parte della barricata, e in parte ovviamente è ancora così, nel senso che scrivo quel che mi piacerebbe leggere. Ma si cresce e si matura come scrittori quando si comprende che una storia deve essere pensata (e scritta) per una molteplicità di lettori diversi. Per molti anni, quando nessuno, e quando scrivo nessuno intendo letteralmente nessuno, sembrava essere interessata a quanto avessi da dire. Per anni i miei racconti sono stati scartati da tutte le riviste letterarie dell’epoca, per anni ho provato a trovare un editore che me li pubblicasse, e non l’ho trovato. Allora che fai? Pensi che i tuoi racconti siano scritti male, li riscrivi, pensi che i tuoi racconti affrontino temi che non interessano alle persone, trovi alto di cui scrivere; ma alla fine credo sia giusto scrivere quel che si vuole, quel che si sente davvero importate. Il lettore ideale dunque non esiste, esiste soltanto uno scrittore che va avanti per la sua strada, provando a raccontare le storie che vuole raccontare nel modo in cui le vuole raccontare, e i lettori arrivano (o non arrivano) di conseguenza. Ritengo che il come sia sempre più importante del cosa, in letteratura, è come racconti una storia che fa sempre la differenza, il linguaggio che utilizzi, il ritmo, il piglio, l’armonia della pagina, il lessico, la costruzione metaforica (di cui parlavo prima), l’intreccio di registri, il saperli dosare e utilizzare al momento giusto, sono queste le basi per una storia scritta come Dio comanda.

Come impieghi il tempo quotidiano dedicato alla scrittura delle tue storie?

Fino a qualche anno fa scrivevo di sera, oggi faccio fatica, ma non è che si possa scegliere quando scrivere. Almeno, io non sono nella condizione di scegliere. Scrivo quando posso, ovvero quando posso mettere da parte la mia vita (il mio lavoro, la mia famiglia) e mettermi al pc. Ma le storie vengono da molto più lontano, mettersi al pc è soltanto l’ultimo atto. Prima c’è la fase di immaginazione, di elaborazione. E questa mi è concessa ventiquattro ore al giorno: ogni cosa che sento e vedo e annuso e tocco e percepisco è lì bella che pronta per venire scritta. Le parole sono decisive. Una singola parola mi può aprire un mondo, o almeno uno squarcio di mondo, che poi può diventare un racconto, o un capitolo, talvolta anche un romanzo. Devo fare attenzione a tutto quello che mi circonda, a come parlano le persone che interloquiscono con me, come si esprimono, che parole usano, che espressioni o intercalari tirano fuori, perché saranno fondamentali quando poi mi metterò al pc. Il poco tempo a mia disposizione fa sì che mi debba mettere al pc soltanto quando ho in mente qualcosa da scrivere, altrimenti meglio uscire e camminare, guardare le persone, il paesaggio, ascoltare gli uccelli, guardare gli insetti, pensare alle solite cose insolubili alle quali gli esseri umani pensano quando pensano, elaborarle, arricchirle o esaurirle di senso (almeno per me).

Quale storia non scriveresti mai?

La storia della mia vita. Non interesserebbe a nessuno, per primo a me. A meno di reinventarla daccapo, e tutta diversa, di sana pianta, scrivendo la storia di un Gian Marco Griffi che per vivere gira il mondo per convegni di angelologia giudaico-cristiana, oppure un Gian Marco Griffi che è un esperto di jai-alai, un linguista, un giornalista sportivo. Ma mi rendo conto di essermi appena contraddetto rispetto a quanto ho affermato prima, quando ho affermato che non conta tanto il cosa, conta il come. E allora potrei pensare di scrivere un romanzo bellissimo e avvincente scrivendo l’inutile storia della mia vita. Ma come dice Lito in Ferrovie del Messico, “mi arrogo il diritto di contraddirmi, […] di lasciare un margine di ingiustizia nella mia vita”.

Stai lavorando a un nuovo romanzo? Se sì, ti andrebbe di anticiparci qualcosa sulla storia?

Non soltanto non sto lavorando a un nuovo romanzo, ma non ho neppure una vaga idea di che cosa potrà essere. Peggio di così…

Hai sfiorato l’ingresso nella cinquina dello Strega: peccato per come è andata, per poco non accadeva un piccolo – meraviglioso – miracolo. In futuro pensi che punterai di nuovo a questo premio?

Fino a un certo punto è stato molto divertente. Stancante ma divertente. Poi sono entrate in ballo dinamiche a me sconosciute, e allora si è fatto molto meno divertente. Ma l’esperienza è bella, è servita a far conoscere le Ferrovie a tanti lettori. Se punterò di nuovo a questo premio lo deciderà il Comitato della Fondazione Bellonci. Però prima, se non sbaglio, devo scrivere un altro romanzo.

Molti librai indipendenti italiani hanno adottato il tuo libro, quasi da subito. Tu, da lettore, che rapporto hai con i librai indipendenti?

In questi mesi ho conosciuto tanti librai indipendenti, tante persone fantastiche con una genuina passione per la letteratura, per la lettura; incontrare tanti librai è stata la cosa più bella che potesse capitarmi. Se Ferrovie del Messico ha avuto il successo che ha avuto, il merito è tanto dei librai, e dei librai indipendenti in particolare. Poi ci sono anche tanti librai che lavorano in librerie non indipendenti ma svolgono comunque il loro lavoro con grande passione e competenza. È questo che fa la differenza. Sempre.

Ti sei mai finto cliente di una libreria per comprare una copia di Ferrovie del Messico? Se sì, ti hanno riconosciuto i commessi?

No.

Hai mai pensato di andare in giro per le scuole a narrare le tue storie? Trovi che sia una pratica utile per stimolare la voglia di leggere nelle nuove generazioni?

Non ci ho mai pensato. Forse potrebbe essere una pratica interessante, ma secondo me per far tornare la voglia di leggere alle nuove generazioni bisognerebbe prima di tutto far passare l’idea che leggere è divertente. È interessante, entusiasmante, coinvolgente e tante altre cose, ma prima di tutto è divertente. Molto più divertente di tante attività imbecilli nelle quali i giovani sono coinvolti. Però la colpa non è certo dei giovani. Siamo stati noi ad aver allontanato le persone dalla lettura, col nostro inutile sbrodolamento su questioni tecniche, critiche, politiche, che non servono a niente e a nessuno se non a un ipotetico demone della non-lettura. I lettori ci sono, e vogliono leggere storie scritte bene, ricche, ma di certo non vogliono farsi due palle così con certe beghe proprie di alcune bolle snob che credono di avere in mano l’unica e sola interpretazione della letteratura contemporanea.

Qual è il primo romanzo che hai letto da ragazzo?

Non me lo ricordo assolutamente. Potrei dirti qualche romanzo di Salgari, o Ventimila leghe sotto i mari, qualcosa di fantascienza tipo Heinlein, Wells (forse La macchina del tempo, forse La guerra dei mondi), può darsi Il signore degli anelli, o L’isola del tesoro di Stevenson, chi se lo ricorda. Ma hai capito che tipo di romanzi leggevo. Subito dopo, verso i diciott’anni, sono passato alla beat generation, Sulla strada e i poeti, Ginsberg e tutti gli altri, compreso Bukowski, e da lì sono arrivato ai modernisti, a Eliot e Joyce, e quello è stato il primo grande amore letterario, seguito da tanti tanti altri.

Di cosa parla il primo racconto – in assoluto – che hai scritto?

Tu pensi che io abbia una memoria prodigiosa, o quantomeno decente, ma in realtà ho una memoria che fa schifo, e quindi anche qui non mi ricordo per niente, ho scritto talmente tanti racconti, e talmente tanti ne ho buttati via, che faccio davvero fatica a tirare fuori il primo.

Ti posso dire due tra i primi racconti che ho scritto da quando ho iniziato a pensare di scrivere per far leggere i miei racconti a qualcuno. Il primo parla di una strada colpita da un morbo terribile: l’ottimismo. Gli abitanti di questa via diventano irrimediabilmente ottimisti, con tutta una serie di tragiche conseguenze. Ricordo che come gli zombie o come i vampiri potevano diffondere la malattia dell’ottimismo, non mordendo le persone bensì baciandole. Si intitolava L’ottimismo del vicolo XI. L’altro era la storia di questa città in cui tutti i cadaveri cattolici dei cimiteri, dall’oggi al domani, germogliavano, buttavano piante di ogni genere, le quali emanavano un odore così fetido che vivere in quella città era diventato intollerabile. Il titolo era un verso di Eliot, si intitolava Stetson! Tu che eri con me sulle navi a Milazzo.

Vuoi dire qualcosa al tuo editore (Lillo Garlisi fondatore di Laurana Editore), che ti ha sostenuto in questa magnifica avventura editoriale? E qualcosa anche al tuo mentore (Giulio Mozzi) che si è impegnato con tenacia per far scoprire il tuo libro?

Che cosa vuoi dire a Lillo e Giulio, a Lucia (Zago) e a Greta (Bertella), e a chi lavora a Laurana, se non grazie per il supporto, per aver creduto in me, per la costante passione che mettono nel loro lavoro. Solo grazie.

Mario Schiavone

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