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Fifty-fifty, Warum e le avventure Conerotiche. Intervista a Ezio Sinigaglia

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Fifty-fifty è il nuovo romanzo di Ezio Sinigaglia, pubblicato nel 2021 da Terrarossa edizioni nella collana Sperimentali. Ezio Sinigaglia torna con un lavoro che, col pretesto della storia d’amore e desiderio tra Warum e Fifí, si lascia andare a una vera e propria antropologia dell’amare, a una filologia del desiderio. Lo stile è all’inizio quasi telegrafico e ricorda in qualche modo quello di Carver oppure di Santacroce di Revolver, seppure la brevità delle frasi si accompagni a un misurato e piacevole gusto barocco per il particolare, per la metafora. A un certo punto il ritmo cambia e il fraseggio si fa ampio, sinfonico. Dalle iniziali toccate e fughe di uno stile puntinato ci s’immerge in un arpeggio di maggior respiro che ricorda molto da vicino la scrittura di Henry James, tra l’altro citato nel testo, o il fantasma ben più corposo di Conrad, e l’ultimo Busi, quello delle Consapevolezze Ultime, la cena, la postura è quella. E così per tutto il romanzo le due partiture si alternano. E pure a Proust possiamo accostare la scrittura di Sinigaglia per la costante digressiva che fa della storia un racconto nel racconto. Il mondo di Sinigaglia non include solo umani, psicologie tracciate attraverso segnali epidermici, esteriorità e vezzi e lapsus, ma anche luoghi, ricami spaziali, intensità animali, esemplare è il quasi interludio della cagnetta Whiggie.

V’è molta musica, in Fifty-fifty: Stocky, il grande amico compositore del protagonista Aram, si chiama così per via del grande compositore Stockhausen. Il romanzo, che pare leggero e piacevole, esibisce però un raffinato gioco antroponomastico intorno ai nomi.

Parrebbe non succedere nulla, e nulla accade se non il desiderio sempre rimandato, che monta tutto un vuoto attorno al quale la cattedrale del linguaggio, plastico e pervasivo, si erge con il sense of humor, i jeux de mots, (il Freud del Motto di spirito appare esplicito nell’ultimo atto), planando con leggiadra perizia nel cosmo dell’amore e della sessualità, che non è mai solo omoerotica o etero, e nemmeno forse bisessuale, sì, invece, amore e desiderio di persone, più che di generi.

Il romanzo di Sinigaglia appartiene, come la sua scrittura, a un genere tutto suo, profondamente originale, desiderante.

«Sono stata fortunata: ho estratto il romanzo neorealista.» Dice la Ramsay in un fitto dialogo con Warum, siamo agli sgoccioli della storia… nel tuo romanzo mi pare ci sia un profondo lavoro sulla rielaborazione di spunti che sembrano andare nella direzione di John Donne, Proust, Busi, la letteratura barocca, ma anche proprio sul linguaggio, penso alla presenza della metafora (le cozze nere, le legumiere di Sheffield, per dirne alcune) o a termini come stringeriore, stringerissimo. Alterni stile telegrafico a ampi sinfonici fraseggi (la parte in cui racconti la notte in tenda, a esempio). Ecco: come nasce l’idea del romanzo e come hai lavorato sulla lingua-linguaggio?

Dal punto di vista narrativo, l’idea del romanzo nasce semplicemente dalla vita. Ho pensato di mettere in scena un narratore che fosse in qualche modo il mio doppio, cioè un mio simile… moltiplicato per due. Un uomo con una sensibilità analoga alla mia, un senso dell’umorismo analogo al mio, dei costumi sessuali non diversi dai miei, che si trovasse a vivere esperienze molto vicine a quelle da me vissute via via negli anni: il tutto però esaltato da una personalità più forte nei rapporti col mondo esterno, da una maturità più presto raggiunta, da un fascino più consapevole. Un’operazione di “aumento” sistematico che, a ben guardare, coincide pienamente con l’etimologia della parola “autore”: ciò che ne risulta è infatti un io più romanzesco. Una volta decisa questa moltiplicazione, questa perversione, a scopo letterario, di me stesso, tutto ne è derivato in modo naturale. Ovviamente, oltre al narratore, anche gli altri personaggi dovevano essere e apparire “potenziati” rispetto a quelli incontrati nella vita reale. E anche la mia tendenza a giocare un po’ beffardamente con i generi letterari ha subìto un benefico effetto moltiplicativo. Ho cercato di scrivere un romanzo che attraversasse e sperimentasse, in modo paradossale, molti generi, dal romanzo d’amore al romanzo di formazione, dal romanzo d’avventura al romanzo di memoria, e che finisse col figurare, nel suo insieme, come – se così posso dire – “un’opera-mondo umoristica”. La lingua segue questa navigazione fra i diversi generi e i diversi registri, e può dunque farsi ora più frammentata ora più distesa, ora più quotidiana ora più letteraria, ma nell’insieme credo che l’intero romanzo resti ancorato a una sua riconoscibile unità stilistica. Anche gli autori di riferimento, quelli esplicitamente citati come quelli per dir così sottintesi, Woolf Proust Conrad James Tasso per restare ai casi più macroscopici, hanno una loro funzione di sostegno e di paradossale rovesciamento nell’attraversamento dei generi. Ciascuno, potremmo dire, è il genius loci di uno dei tanti romanzi che stanno compressi dentro Fifty-fifty. Conrad, cui è dedicato uno spazio insolitamente ampio, è ad esempio il santo patrono del romanzo d’avventura. Si capisce che l’avventura, nel nostro mondo contemporaneo così poco avventuroso, ha un sapore ironico. Lo stesso capovolgimento ironico vale negli altri casi.

«Aram, cognome del Narratore (di cui ignoriamo il nome), chiamato anche Warum (da Fifí), Ramy e Ramino (da Ala­dino), Am-am (dalla Beauharnais).» Il romanzo si apre come fosse un’opera teatrale. Vengono presentati dei nomi, dei personaggi che sono quel che il linguaggio rappresenta, o viceversa. Sembrerebbe che tu abbia guardato ai soggetti della storia, ai loro nomi, con piglio antroponimico. Non sono solo nomi. Che ci puoi dire al riguardo?

L’abusata locuzione latina nomen omen farà la sua comparsa soltanto nella seconda parte del romanzo, e per di più – nel pieno rispetto del mio amore per il paradosso – sarà associata a un personaggio storico (storico per modo di dire: è storia contemporanea, e di bassissima lega) che ne nega la veridicità. Ma certo la si respira anche in questo primo volume. Dev’essere una massima che piace molto ad Aram, il narratore, ma che allo stesso tempo non lo soddisfa. Bisogna cambiare nome a tutti per restituire a ciascuno l’omen, il destino che gli spetta. In questo modo, chissà, si può porre un limite al disordine del mondo.

«A me non piace. Eppure è bellissima: sai come si chiama? Nch. Jardins sous la pluie. Sciadè Sulapì? chi è, il Bac?» l’idea di storpiare nomi e lingue testimonia proprio della plasticità della tua scrittura: la tua attività di traduttore ha in qualche modo influito sullo stile del tuo romanzo?

Direi proprio di no. Fino al 2015, cioè fino all’età già veneranda di 67 anni, ho fatto un gran tradurre articoli di economia, voci enciclopediche di storia della musica, porcherie pubblicitarie, astrusissimi testi sull’arte contemporanea, un libro sul mestiere dell’orologiaio, uno di critica cinematografica e addirittura uno di geografia rurale. È difficile immaginare che tutto questo abbia potuto generare una benefica ricaduta sul mio stile. L’inizio della mia attività di traduttore letterario è venuto quasi a coincidere, curiosamente, con la sospensione – spero non definitiva – della mia attività di narratore. Ma certo l’enorme quantità di romanzi che ho letto dai quattordici anni in poi avrà influito, eccome! Si tratta perlopiù di influenze del tutto inconsapevoli. D’altra parte giocare con le parole, dare nomi buffi alle cose, e a volte alle persone, mi è sempre piaciuto molto, fin da bambino, proprio come al mio doppio Aram. A lui, ho pensato, deve piacere due volte più che a me.

«Lui si fa di nuovo forza schiacciante, attanagliante, e io mi faccio inerzia di marmorea statua. Si rotola di nuovo. Nei passaggi sui fianchi e negli assestamenti a faccia in giù sca­teno con perizia le pinze delle dita: gli afferro un minusco­lo lembo della pelle dei fianchi e lo torco in un pizzicotto perfetto, che lo fa urlare di dolore.» A proposito della plasticità della tua scrittura, non posso non intravvedere, di più in questa scena della lotta amorosa tra Warum e Fifí, le posture muscolari e i ritmi di un gruppo scultoreo, tipo quello del Laocoonte, sia perché siamo in odore di antichi corpi e lessemi latini, sia perché la descrizione minuziosa delle opposizioni e dei corpi accende l’immagine della tridimensionalità della scrittura. Che rapporto hai con le immagini, intendo soprattutto con la scultura, con il grado diametralmente opposto all’altra caratteristica del romanzo, cioè la musicalità?

Che la vista sia per l’arte narrativa la regina dei sensi è, credo, una verità data per scontata da sempre, e comunque da ben prima dei successi – ahimè – abbastanza effimeri dell’école du regard. Però non credo che le immagini cui attinge di preferenza la mia vista interiore quando scrivo siano quelle dell’arte classica. Un repertorio prezioso continua a essere per me il cinema, che non frequento più da anni, ma che ho frequentato in modo ossessivo per l’intera giovinezza: ho come l’impressione che possa a volte ispirarmi perfino a mia insaputa. Così pure il teatro, e in particolare certe trovate registiche o scenografiche rimaste scolpite nella mia memoria. Ma resto convinto che quella che ho chiamato “vista interiore” dello scrittore attinga principalmente alla realtà, a memorie deformate della realtà, piegate alle esigenze narrative fino a dar vita a una realtà alternativa, a quel realismo irreale che fa da sfondo alla maggior parte dei romanzi. Nell’insieme mi sento di poter dire che, come ogni vero scrittore ha un suo stile, così ogni vero scrittore ha una sua vista. In Fifty-fifty il primato della vista è insidiato, per la verità, dall’importanza dell’udito, in considerazione dello spazio anomalo che nel romanzo la musica si accaparra. Ma, poiché Aram è privo di orecchio e di conseguenza ascolta la musica con ogni parte del suo corpo, o per meglio dire la sente dappertutto “tranne che con le orecchie”, tutti gli altri sensi vengono a rivaleggiare con la vista.

Come avrai capito, cerco di eludere il vero nodo della domanda: il mio rapporto con la scultura. Questo perché il mio rapporto con la scultura è molto strano e certo psichiatricamente interessante. La rappresentazione tridimensionale della figura umana mi fa un po’ ribrezzo. Le statue che adornano le piazze le trovo francamente oscene, offensive, e depreco la sorte di Garibaldi, un eroe così sanguigno, ora pietrificato in migliaia di orribili esemplari. Ho sempre avuto una particolare avversione per le bambole: da bambino mi mettevano in fuga e ancor oggi, se qualcuno mi invita a cena per la prima volta e, nel visitare la casa, scopro un’orrenda, gigantesca bambola seduta come in trono in co’ del letto, il desiderio di andarmene al più presto si fa subito intenso e imbarazzante. Tutto questo avrà sicuramente le sue cause, che a me restano però ignote, mentre mi risultano ben chiare le conseguenze: non mi faccio commuovere né da Fidia né da Prassitele, né da Bernini né da Canova, perché guardo i loro capolavori il più distrattamente possibile.

«Il fatto è che la musica, io, la sento altrove: non nelle orecchie. Chissà dove. O, per me­glio dire, io lo so dove: dappertutto, ecco. Tranne che nelle orecchie.» Appunto, dalla materia scultorea all’astratta musica (Stocky, il miglior amico del protagonista evoca chiaramente il grande sperimentatore musicale Stockhausen) che pure Warum ascolta sempre altrove. Che dialogo intrattiene il tuo romanzo con la musica?

In un romanzo in cui il tema del desiderio sembra prevalere su ogni altro, forse la musica è soprattutto questo: un desiderio irrealizzabile, simile dunque all’amore del narratore per Fifì. Aram dice esplicitamente che “C’era un solo mestiere che avesse senso: il Bac”, cioè il compositore. Ma questo avvenire immaginato da Aram bambino è reso irrealizzabile dalla sua totale mancanza di orecchio musicale. Ecco dunque il primo amore non corrisposto: quello del narratore per la Musica. Mi sembra quindi del tutto logico che la musica abbia tanta importanza in una storia come questa, dove l’impossibilità dell’amore spadroneggia. Si potrebbe affermare, in estrema sintesi, che i tre temi principali del romanzo siano in realtà tre coppie di tema e controtema così articolate: l’amore e la sua irrealizzabilità, la gioia di vivere e l’ineluttabilità della morte, la musica e il silenzio. Quest’ultima coppia si prenderà tutto lo spazio che merita nel secondo volume.

«Avevo baciato mia madre da un pezzo. Ed ogni altro guardiano della riva. Mia madre per ultima, come ogni sera. Lei si curvava su di me come se il mio sonno fosse una madre notturna, che la sostituiva amorevole nel buio, per restituirmi intatto al risveglio alla madre del giorno e del­la luce.» È un estratto dalla sezione Sciadè Sulapì, dove mi pare che aleggi proprio la scena iniziale della Recherche di Proust. È solo una mia impressione o Proust è uno degli autori cui guardi sovente?

Non c’è alcun dubbio che il capitolo intitolato “Sciadè Sulapì” renda più di un omaggio a Proust: il mistero del sonno, il bacio di maman, una crisi di panico soffocante… Però, secondo la metodologia già felicemente sperimentata nel Pantarèi, i miei omaggi agli autori più amati sono sempre venati di ironia ed esposti all’irriverente escamotage del rovesciamento di senso. In Aram bambino, che resta sveglio mentre tutti credono che dorma, non c’è nessuna angoscia della solitudine, nessuna paura dell’abbandono: anzi, l’insonnia è un’avventura esaltante, un’esperienza di conoscenza. Il bacio della mamma rimane sì un segno d’amore indispensabile, ma non è vissuto con sofferenza: al contrario, la consapevolezza del bambino di sapere qualcosa che la madre non sa (che cioè lui resterà a lungo sveglio) conferisce a quel gesto un sapore eroico. L’attacco di panico, innescato dalla musica, è sì un’esperienza spaventosa, ma aprirà la strada alla scoperta più importante: l’ineluttabilità della morte. Così è anche per gli altri autori celebrati nel mio romanzo: basti pensare alla sorte paradossale e onanistica del Tasso, pur tanto amato e ammirato. O a quella del meraviglioso, epico Conrad, utilizzato come dog-sitter. O a Virginia Woolf, chiamata in causa per un paio di soprannomi. O a Henry James, che si vede attribuire una presunta, ridicola rivalità con il fratello William. I miei omaggi sono sempre un po’ beffardi.

Questo romanzo è pubblicato nella collana Sperimentali: cosa ne pensi del rapporto tra letteratura e sperimentazione in Italia. In un’epoca di iper-velocità e superfici che aborrono il raffinato gioco dell’arte?

Senza sperimentazione, a mio parere, non può esistere nessuna forma d’arte. Perciò sono grato a TerraRossa e all’editore Giovanni Turi per avere intitolato alla sperimentazione un’intera collana. Questo mi ha permesso di pubblicare alcuni dei miei libri da vivo. Tuttavia, poiché resto convinto che la buona letteratura sia sempre destinata, alla fine, a prevalere sulla mediocrità, penso che le maggiori soddisfazioni me le prenderò da morto.

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