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Foglie altrove. Intervista a Michele Paoletti

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Foglie Altrove è una raccolta di poesie di Michele Paoletti edita da Arcipelago Itaca nel 2020 nella collana Mari Interni con la prefazione di Maria Grazia Calandrone. Foglie Altrove è divisa in quattro sezioni che percorrono il destino del tempo e delle cose che si trasformano. La scrittura di Paoletti è al tempo stesso intima, non privata, e antropologica, perché l’esistenza di cui si percorre il tragitto è quella dell’umana specie e delle cose che trattengono la presenza di chi non è più. È forte il legame con il territorio e lo spazio della casa, con l’oikos che è pure ethos. Infanzia che rivive nel corpo altrui, di padre in figlio in nonno. La promessa del poeta è mantenuta e labile come ogni poesia, la promessa della scrittura è questo mare che sa diventare vapore innocuo o travolgere incontenuto il confine della terra. È voce che lascia il corpo e al corpo ritorna come ferita benefica.

Gianluca Garrapa

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In esergo scrivi: «Même au-delà du temps le jour se lève» che è il titolo di una raccolta di poesie di Yves Bonnefoy e come lui anche tu riprendi il discorso del legame tra le cose e le parole, il gioco dei rimandi e dell’infanzia, e invece come hai scelto il tuo titolo Foglie Altrove?

Quando ho iniziato a comporre questa raccolta avevo ben chiaro il titolo: si tratta di un’espressione che avevo utilizzato nella raccolta precedente, Breve inventario di un’assenza a cui ho voluto dare un significato diverso, vestirla di luce, di speranza.

FOGLIE ALTROVE, UN INVERNO TARDIVO, LA LUCE NEI CORTILI, SEME CHE SORGE: sono le quattro sezioni, quattro ideali stagioni di vita, che dividono collegando gli spazi della tua composizione: ci racconti cosa li differenzia e la loro genesi?

Le sezioni rappresentano un viaggio attraverso il tempo e le stagioni. Si parte dall’autunnale Foglie altrove per terminare all’estiva Seme che sorge. Foglie altrove rappresenta il passaggio dalla perdita alla consapevolezza che il percorso della vita non è lineare bensì circolare e che l’inverno è soltanto una situazione temporanea, un momento di raccoglimento, di passaggio. Il seme conficcato nella terra si prepara a germogliare, nel buio la vita sta in attesa: l’inverno è una stagione tutt’altro che morta, è un’attesa silenziosa ma piena di fermento. La luce nei cortili rappresenta la primavera e mi è servita per allacciare i fili del tempo, cucire la mia infanzia con quella di chi c’è stato prima di me per poi spiccare il salto finale con Seme che sorge, interamente dedicata alla nascita di mio figlio, un passaggio di testimone quindi.

«Dalla montagna sgorga a perdifiato / un vento tiepido di attese. Un fiore / spacca il grigio della pietra»: mi sembra di cogliere una forte simbiosi tra natura e comportamento umano, tra la fragilità e l’eterno, l’esistenza individuale e le generazioni che si tramandano una memoria: qual è la tua idea di poesia nel rapporto col tempo?

La poesia cerca di realizzare un’impresa impossibile: raccontare il tempo e la realtà, il loro continuo mutamento. Il mio tentativo è quello non di cristallizzare momenti precisi ma cercare di dare un corpo a tutto quanto pare sfuggirci.

In questa raccolta sono molte le dediche a altri poeti, prima Yves Bonnefoy, poi Pierluigi Cappello, Sandro Pecchiari, Anna Bertini e Maria Grazia Calandrone, autrice della prefazione: che legame hai con le loro scritture?

La mia scrittura è sempre diretta verso qualcuno, non è mai piegata su se stessa, non so se questa “impresa” può dirsi riuscita ma è qualcosa a cui tendo sempre. Leggere gli altri è una fonte continua di arricchimento ma in questo libro ho voluto che il contributo che questi autori hanno dato a ciò che scrivo e ciò che sono fosse esplicito. Bonnefoy è stato uno dei primi poeti che ho letto, Calandrone e Cappello mi accompagnano costantemente, sono autori che rileggo spesso, Pecchiari e Bertini oltre a essere ottimi scrittori sono anche amici, scrivere testi loro dedicati è stato qualcosa di naturale, un abbraccio.

«Dentro avevi tutte le voci del mondo»: sei appassionato di teatro, e il teatro è la condivisione del proprio corpo e della propria voce con il mondo: questo ha influenzato la tua scrittura poetica?

Del teatro mi porto dietro il rapporto con l’altro, che come dicevo precedentemente è quello a cui la mia scrittura tende da sempre.

«Ci credi quando dico / che le parole avevano un odore / anche se non le capivo anche se / restavano appese, capovolte»: in questa raccolta le parole traghettano sensi e odori, luci e contatti corporei. Una scrittura del corpo e della terra, della frammentazione e dello sbriciolamento: i cinque sensi sono coinvolti: che suono fa la tua scrittura, che odore e che gusto? Cosa vede e cosa sente la tua poesia?

È una poesia delle piccole cose, di gesti quotidiani, odora di terra e pane, della pelle di un bambino.

«Le cose ci stanno addosso / come quegli aghi e premono / per farsi spazio senza chiedere / si lasciano ingoiare, sedimentano»: Maria Grazia Calandrone evoca Pascoli nel finale della sua prefazione, le piccole cose che non sono oggetti ma cause di ricordi, à la Proust, eventi psicometrici che conducono fuori una memoria dei sensi e del corpo. Gli oggetti in poesia perdono il prezzo capitale e diventano cose di immenso valore: cosa ne pensi?

Gli oggetti per me hanno sempre rappresentato un modo di ricostruire la realtà. In Breve inventario di un’assenza cercavo di mantenere vivo il ricordo di mio padre attraverso ciò che rimane e per me è stato indispensabile partire dalla materialità degli oggetti per associare loro qualcosa di inafferrabile come il ricordo. Per me è necessario un legame con qualcosa di tangibile altrimenti si perdono riferimenti e si rimane in un territorio inconsistente, gli oggetti ci tengono ancorati alla terra, sono le nostre coordinate.

«Crescevano i capelli, le ginocchia / si facevano più dure. Il fumo della fabbrica / inceneriva il cielo»: nella tua poesia è presente il territorio della geologia, quello dei cortili e degli affetti, delle camere illuminate e dell’età, delle generazioni, ma pure il territorio economico degli affari, del lavoro che dà da mangiare levando un poco troppo di vita e di aria. Che rapporto instaura la tua poesia con il territorio dell’economia e del lavoro?

È una domanda difficile. Credo ci sia poca relazione con l’aspetto economico, i riferimenti alla fabbrica erano necessari perché a Piombino il legame con gli impianti siderurgici è forte, anche adesso che ormai l’Acciaieria è praticamente morente. Nella mia famiglia sia mio nonno che mio padre hanno lavorato nella fabbrica quindi è stato naturale parlarne per ricostruire la genealogia. Foglie Altrove in fondo parla di questo: protrarre l’eco delle voci di cui siamo fatti il più possibile.

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