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Indice delle cose mutevoli

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Non posso essere io, quello che spara. L’abito lo vieta. Per cui lascerò fare a un benefico incendio. Ho cosparso di benzina gli arredi nella sacrestia e nella canonica. E pure i banchi di legno. La chiesa è del 1720. E la mobilia è coeva. Quindi dovrebbe rendere piuttosto bene. È questione di attimi, poi si vedrà dove voglio arrivare.
 
Non se ne esce, non c’è nulla che possa fare. Ho iniziato da bambino. Gli altri, per gioco, mangiavano terra e fili d’erba. Qualcuno, pur di scommettere diecimila lire, aveva provato con un verme grigio a pezzettini nella minestra del convitto. Io davo alle bambole i wafer alla crema. Questo è il mio corpo – dicevo – mangiatene tutti.
 
Perciò ammetto. L’ho capito un po’ tardi, ma ho capito: siamo soli. Ma in un mondo che rende impossibile la solitudine. Anche le sorelle del convento qui vicino, senza contare le più sorde e le decerebrate, tengono la radio a tutto volume. E quando in tv danno film tipo Suore in fuga non ne perdono uno. Anzi, dopo li commentano insieme alle ragazze dell’istituto. Se li godono proprio, insomma. Mi hanno anche invitato a vederne uno l’altra sera, mentre riponevo casula e cotta dopo la funzione. Poi mi ospitano a cena in refettorio. Sempre con l’audio altissimo che si sente fino in fondo alla strada. Ma i loro inquilini nemmeno osano protestare, hanno gli affitti così bassi…
 
Stanotte ho fatto un sogno che si potrebbe senza sforzi definire teologico. Peccato che il vescovo non lo potrà mai sapere. E un po’ me ne rammarico. C’entrava un po’ con i numeri. All’inizio una pioggia di cifre. Poi si è vista una divinità a tre teste, che non riuscivo mai a baciare tutte insieme. Le lacrime sono venute spontanee. Però mi è andata meglio con la seconda parte. Un Cristo con gonnellino di banane. Ho accarezzato la guancia coperta di sangue e sudiciume, nel sonno del sepolcro, e ho posato le mie labbra sulle sue. Proprio mentre mi scostavo mi sono svegliato.
 
Non ho mai sopportato i condizionatori, quella lama d’aria fredda che penetra dalla schiena e invade il midollo fino a farlo diventare polvere. Dormo poco. Troppi caffè. Mi alzo un’ora prima di tutti, nei giorni di festa. I miei parrocchiani. Le mie ottocento pecore. Filamenti di geni selvatici, di mezza montagna. Gli stessi mescolati per secoli. Un gregge che non può fare a meno di me. Almeno, fino a stasera.
Mi rado con cura, mi lavo, doccia fredda poi calda. Al termine della quale spengo il boiler e sposto la radiosveglia di plastica per cogliere sempre nuove sfumature nella sigla delle sei e trenta. Quella musica caraibica così gioviale – che è semplice ma solo in apparenza – rivela ogni volta colorazioni differenti. A seconda del tavolo o del comodino su cui si dilata. La voce, ad esempio, sembra quasi arrivare da fuori. Forma una specie di passepartout sonoro attorno alla mia figura. Si distende sulla fronte, poi percorre la parete per disperdersi nel pianoforte e nelle percussioni. Copre la trapunta e torna a posarsi accanto alle orecchie. Per quanto ho potuto constatare sinora, il luogo migliore per l’apparecchio è la mensola a destra. Poi mi vesto impeccabilmente. Ma rimango per qualche minuto, prima di dir messa, in poltrona a sfogliare giornali. E tutto quel passare il bicarbonato fra un dente e l’altro, cercando di lenire il gonfiore, fa sempre venir fame, a un certo punto.
 
Appena messo piede qui, le pecorelle mi hanno tagliato le gomme dell’auto. Segno di benvenuto. Ma adesso mi arrivano lettere come questa: «Sono proprio io, Biancaneve. Solo che mi mancano i sette nani. Per fortuna è arrivato lei. Ci aiuterà ancora, lo sento». Povera donna. Per mesi passa il tempo a fare calze e golfini a mano. E un bel giorno sveglia tutto il paese urlando, mentre getta dal terzo piano le scorte di bombole del gas in mezzo alla strada. Oggi sono venuti a portarla via. L’hanno estratta a viva forza dall’armadio. A proposito, ecco dove terrò la sua corrispondenza. Mi trasferirò da lei, aspettando il suo ritorno, dopo il colpo di accendino che avrà risolto in breve tempo la questione dell’alloggio.
 
Il cane del vicino – quello che fa il macellaio e nei pomeriggi d’estate brucia i polli appestando il quartiere – esaspera ogni giorno di più. Sveglia alle tre o alle quattro di notte venendo ad abbaiare proprio sotto la finestra della canonica. Magari quando sono rientrato da appena mezz’ora e ho la testa quadrata, me la sento dieci volte più grande. Qui si offendono, se passi a benedire e non bevi un goccio. Oppure sbuca fuori da un sogno partendo da lontano. Per poi avvicinarsi, finché riesce a svegliarmi. Gira attorno alla casa. E da ogni punto in cui si ferma emana quei latrati mai sconfitti, mai deboli. Per poi cessare di colpo e riprendere dall’altra parte. Provo inutilmente a inseguirlo, accendendo una per una le luci del giardino, o gettando qualche scarpa vecchia dalla finestra. Lui intanto prosegue. Anzi sveglia i suoi simili nel vicinato. Da anni nessuno mi parla.

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Lorenzo Morandotti è nato a Milano nel 1966. Giornalista, ha diretto vari periodici e dal 1997 è redattore delle pagine culturali del quotidiano “Corriere di Como”, abbinato al “Corriere della Sera” Ha pubblicato il saggio Il sogno condiviso (Salerno, Ripostes, 1994), dedicato all’opera poetica di Emanuele Occelli, Patrizia Valduga e Mario Marchisio, Ha pubblicato poesie nel volume Respirazione (Lecce, Manni, 2001, con una prefazione di Vincenzo Guarracino, finalista al premio “Montano” 2003) e in varie plaquettes tra cui Numerale delle edizioni Lythos di Como (2001), con una litografia dell’artista Silvano Bricola. Sta per uscire per le edizioni Es di Milano la raccolta di prose e aforismi Crani e topi. Il testo pubblicato fa parte del romanzo di prossima pubblicazione Brucia le tue navi.

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