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La ragazza unicorno. Intervista a Giulia Sara Miori

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Uno spazio inquietante: “La cella misurava due metri per tre. Era senza finestre. Completamente bianca: bianche le pareti, bianco il pavimento, bianca la luce che si diffondeva dalla lampadina sul soffitto. Per terra, un sottile tappeto stinto, di un colore che, ammesso che ci fosse mai stato, ora appariva difficile da identificare. Sul pavimento, due coperte bianche ripiegate con cura. La porta, anch’essa dipinta di bianco, era blindata ma aveva uno spioncino, che però era chiuso. Non c’erano specchi né altri elementi d’arredo. Non c’erano sedie, tavoli, poltrone. Non c’era il letto. Non c’era il bagno. Faceva freddo”.

È in libreria, La ragazza unicorno, di Giulia Sara Miori (Marsilio 2024, pp. 118 € 15).

Giulia Sara Miori è nata in Sicilia e ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza a Trento. Nel 2001 si è trasferita a Milano dove si è laureata in Lettere. Da diversi anni vive e lavora a Utrecht e ha all’attivo la raccolta di racconti Neroconfetto (Racconti 2021).

Il signor Cattaneo viene rapito da due uomini e portato in un luogo completamente bianco. Viene interrogato sui suoi affari personali, ma scopre che i suoi rapitori sanno molto di più su di lui di quanto lui stesso sappia. Intanto, sorge il mistero della “ragazza unicorno” e del suo legame con il prigioniero.

La scrittrice racconta un essere umano che fugge le responsabilità, perduto e incapace di guardarsi dentro. Un uomo isolato e privo di rapporti familiari e di amicizia profondi.

In queste centodiciotto pagine ho letto la forza e la grazia espressiva nel raccontare una storia che affascina e stupisce.

Nell’ intervista che segue, l’autrice mi racconta il suo romanzo che abbina situazioni kafkiane a simbolismi che ricordano David Lynch.

Un libro vivo che ti intrappola e non ti lascia più andare che include spazi simbolici in cui il lettore diventa spettatore, a sua volta partecipe, della creazione di un’opera d’arte grandiosa e disperata come la letteratura più bella.

Carlo Tortarolo

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Il tuo romanzo “La ragazza unicorno” edito da Marsilio tocca la questione del rapporto tra la verità, ipotesi e bugie. Quindi la prima domanda che ti faccio è: Qual è rapporto con la verità del tuo personaggio? E il tuo?

Il protagonista del mio romanzo ha una doppia vita di cui non è per niente consapevole: una è quella che effettivamente vive, cioè una vita normalissima, direi anche piuttosto banale; l’altra è quella che vorrebbe vivere, radicalmente diversa e per certi versi anche opposta alla sua. Tuttavia, invece di seguire la via del desiderio, contorta e complicata, sceglie di percorrere una strada più sicura, forse in apparenza più comoda, ma meno autentica. In fondo, a molti capita di accontentarsi di un lavoro che non amano, di ritrovarsi a cena al ristorante con la propria moglie senza avere una sola parola da dirle, di fingersi eterosessuali per non deludere la famiglia di origine, di rimanere imprigionati in un’esistenza borghese che detestano perché la paura di interrogarsi sui propri desideri profondi è troppo forte. È chiaro che in questi casi, come nel caso del signor Cattaneo, il protagonista de La ragazza unicorno, il rapporto con la verità è problematico e ambivalente.

Per quanto riguarda il mio rapporto con la verità, invece… sono una scrittrice di fiction, quindi in un certo senso il mio lavoro è mentire, inventare, distorcere la realtà dei fatti per cercare di raggiungere una verità più alta, più astratta anche, e cioè la verità artistica. I miei personaggi sono una proiezione delle mie parti più oscure.

2La copertina è molto intrigante e anche artistica.

Oserei dire che, in un libro che non sembra avere una vera e propria morale, la morale sta nella copertina, nel senso che un bel libro deve andare oltre certe immagini attraenti. E per leggerlo bisogna superare la copertina e andare a pagina 1.

Allo stesso tempo, però, il messaggio erotico è un canale per adescare il lettore verso la letteratura. Cosa ne pensi? E come e chi l’ha scelta?

La letteratura, se praticata come si deve, ha molto a che fare con la seduzione. E sedurre, dal latino sedùcere, significa letteralmente “distogliere dal bene con lusinghe e allettamenti, traviare” (vocabolario Treccani). In altre parole, entrambe le cose, la seduzione e la letteratura, comportano una certa dimestichezza con l’arte dell’inganno, della disonestà. Quando sento dire che uno scrittore deve essere prima di tutto onesto, mi viene da ridere. Lo scrittore è un bugiardo incallito, un affabulatore, uno che quando è a letto con qualcuno si chiede soltanto se quella persona gli potrà tornare utile come materiale per una storia. Non c’è da fidarsi degli scrittori: in questo senso, la copertina di ColorOrgy, volutamente provocatoria, ci racconta che quella che a prima vista può sembrare una magnifica poltrona capitonné, in realtà non è altro che un culo, attraverso il cui orifizio il lettore può diventare ciò che desidera essere, ovvero un voyeur, allo stesso modo in cui lo scrittore è un esibizionista.

Il compito dell’arte è quello di turbare, di scandalizzare, di dare fastidio. Perché mai una scrittrice dovrebbe comportarsi da educanda? Se un uomo avesse scelto una copertina come la mia, avrebbero detto che è un genio e un provocatore. Io invece vengo accusata di svendermi, di fare marketing, come se il marketing fosse qualcosa di dannoso, quasi una forma di prostituzione intellettuale. Il problema è che l’Italia è un paese di ipocriti: vanno a messa e poi in privato fanno le orge; l’importante è che non si dica apertamente.

Comunque, per quanto possa sembrare strano, la copertina è stata proposta da Marsilio insieme a tante altre opzioni. A me ha colpito subito perché ironica, audace e fuori dagli schemi. Mi sono confrontata con Chiara Valerio, e quando mi ha detto che anche lei ne era entusiasta abbiamo deciso di osare.

Lo stile e la storia intrigano così a fondo da far sì che il prigioniero sia il lettore, il finale aperto fa sì che non sia mai del tutto liberato, era voluto?

Sì, certo: tutto è voluto. È prigioniero il protagonista, è prigioniero il lettore, è prigioniera l’autrice. In fondo, chi può dirsi davvero libero?

Il periodo di carcerazione del prigioniero è molto simile a quello in cui molti italiani si sono trovati detenuti in casa in seguito all’emergenza covid. D’altronde il libro dimostra quanto le persone possano cambiare idea e cedere facendo cose nelle quali non credono quando sono sottoposte a forti pressioni. C’è una relazione tra il libro e quanto è stato vissuto nel periodo dell’epidemia da gran parte del mondo occidentale?

Non saprei, non ho mai pensato al covid mentre scrivevo il romanzo. In generale ci penso il meno possibile, forse per un meccanismo di difesa. Quindi no, non c’è nessuna relazione tra il libro e la pandemia, anche se ovviamente la pandemia ha influito su molti aspetti della nostra vita soprattutto a livello inconscio, quindi non escludo che anche l’arte possa esserne condizionata. La prigionia del signor Cattaneo è comunque un fatto interiore.

Il tuo è anche un libro sui rapporti umani sulla profonda solitudine degli uomini di oggi che sono circondati da rapporti di amicizia fittizi e anche i rapporti parentali per la profonda superficialità del nostro vivere contemporaneo diventano estremamente flebili e sottili.

Il modo in cui sono cambiate le relazioni personali negli ultimi decenni mi fa orrore. Houellebecq ne ha scritto magistralmente nei suoi romanzi più riusciti, come Estensione del dominio della lotta e Le particelle elementari. Viviamo in un contesto in cui capitalismo, narcisismo e individualismo hanno trasformato profondamente il modo in cui ci relazioniamo agli altri. È come se fossimo diventati degli enormi buchi neri divorati da una fame perenne. Ha molto a che fare con una sorta di bulimia esistenziale, credo, e non a caso tra i più importanti disturbi della nostra epoca ci sono anoressia e bulimia. È una fame che pervade tutti gli aspetti dell’esistenza, e che conduce a un appagamento istantaneo e illusorio, che però ci lascia più affamati e disperati di prima. Abbiamo un bisogno compulsivo di spendere, di comprare, di mangiare, di scopare, di apparire, di parlare, di consumare sostanze che ci permettano di sentirci in un perenne stato di eccitazione; uno stato che tuttavia copre un vuoto depressivo forse dovuto al fatto che i valori su cui si reggevano le società occidentali si sono sgretolati e non sono stati rimpiazzati da nient’altro (Houellebecq identifica le ragioni nel processo di secolarizzazione). In quest’ottica, le altre persone esistono soltanto come fonte di approvvigionamento narcisistico. Penso alle dating app, vero e proprio candy shop in cui il match non è altro che una patetica conferma di piacere (a chi? a cosa? e soprattutto: perché?), ma anche ad altre forme di socialità e insieme di appagamento fasullo, come i like sui social. Anche le forme di espressione artistica sono state influenzate dal nostro modus vivendi: la crescente popolarità dell’autofiction in letteratura mi sembra sintomatica in questo senso.

Allo stesso tempo, ci spaventano le relazioni autentiche, quelle che si costruiscono lentamente, che si nutrono di ascolto, di attese, di pensiero, di sfumature. Io credo che ci spaventino perché ci espongono troppo, in un modo che ormai si è fatto intollerabile.

In poche pagine il tuo romanzo riesce a essere ricco di dettagli al fine di ricostruire una vicenda che possiamo definire singolare ed enigmatica. A volte i tuoi personaggi sembrano contraddittori e sembrerebbero prendere in giro anche se stessi. Mi sbaglio?

Chi non è contraddittorio? A volte crediamo di volere una cosa e invece poi ci rendiamo conto che ciò che desideriamo è l’esatto opposto. Attraverso l’ironia cerco di scavare nelle contraddizioni dei miei personaggi per costringerli a guardarsi dentro.

Che cos’è l’amore per il tuo prigioniero? È un sentimento per cui provare paura? Dal quale fuggire o per il quale non provare a trattenere qualcuno che vuole andar via?

L’amore è l’unica forma di verità da cui è difficile sfuggire: per questa ragione il prigioniero non riesce a trattenere la moglie che lo sta lasciando. Chiederle di restare significherebbe uscire almeno parzialmente dalla prigione, mostrarsi nudo e vulnerabile e anche correre il rischio di essere rifiutato e messo in discussione come marito e come uomo. Se lo facesse, forse finalmente sarebbe libero, ma la libertà, quella vera, comporta delle responsabilità che lui non è pronto ad assumersi.

La prigionia è anche vissuta come una vacanza o come un viaggio purificatore per cambiare vita e questo sembra uno dei significati del tuo romanzo, tu che ne pensi?

Più che a una vacanza, penso a un viaggio interiore, e non dei più sereni. L’obiettivo non è tanto quello di cambiare vita, il che presupporrebbe una chiarezza d’intenti e una consapevolezza che non appartengono al signor Cattaneo, ma piuttosto quello di provare a capire, a capirsi. Di certo c’è un desiderio di cambiamento, ma tutti i veri cambiamenti richiedono del tempo per essere maturati e portati a termine. Quindi La ragazza unicorno racchiude solo una piccola parte di questo percorso che probabilmente durerà tutta la vita (mi piace pensare che i miei personaggi abbiano un’esistenza autonoma che prescinde da me e che trascende le pagine del romanzo).

Mi racconti la genesi del romanzo e dei personaggi? Cosa ha ispirato la storia e la costruzione dei soggetti.

L’ispirazione mi è venuta mentre stavo scrivendo un altro romanzo. In una scena, la protagonista, una bambina di dieci anni, veniva rapita dalla madre e dall’amante di lei. In un altro capitolo, un personaggio subiva una forma di tortura piuttosto pesante. Per qualche ragione non ero convinta del romanzo, ma continuavo a pensare e a ripensare a quelle due scene: il rapimento e la tortura. Qualche giorno dopo, senza sapere minimamente il perché, mentre ero a pranzo ho immaginato un uomo di mezza età un po’ stempiato e un po’ curvo, senza amici, che ogni mattina andava al lavoro e rivolgeva a malapena la parola ai colleghi. Le due circostanze non sembravano avere alcuna correlazione. A un certo punto, però, poiché non ero per niente soddisfatta dell’altro romanzo, mi sono messa a cercare su internet quali fossero le forme di tortura più disumane, quelle in grado di sconvolgere per sempre la mente di una persona. Con un certo stupore, ho trovato informazioni sulla white torture, tortura bianca, un metodo di isolamento e di deprivazione sensoriale che viene tuttora utilizzato nei regimi carcerari di molti paesi. La cosa mi ha colpito particolarmente perché, anche se si tratta di un metodo economico e non cruento, può portare rapidamente alla pazzia. Allora mi sono documentata, ho letto diverse testimonianze e alcuni saggi, e in poco tempo ho abbandonato l’altro romanzo, completamente rapita da questa nuova idea. Sentivo che dovevo scrivere qualcosa di diverso, qualcosa che proveniva da una parte di me molto intima e privata, ma ancora non sapevo che cosa ne sarebbe venuto fuori. L’immagine dell’uomo curvo e stempiato che andava a lavorare mi è venuta in soccorso, e ho pensato: è lui, è lui il prigioniero. Allora ho cominciato a scrivere giorno e notte senza sapere dove stessi andando, e in un paio di mesi, con l’aiuto e i consigli illuminanti del mio editor personale Antonio Russo De Vivo, che considero un genio e un visionario, ho portato a compimento il romanzo.

È molto interessante il modo con cui hai trattato la parte relativa ai colloqui con i carcerieri. Hai studiato le tecniche di interrogatorio?

Sono un’appassionata di cronaca nera e talvolta per rilassarmi ascolto interi stralci di interrogatori su Youtube. Guardo moltissime serie di true crime, documentari e programmi come Un giorno in pretura e Storie Maledette di Franca Leosini. Poi sì, ho approfondito le tecniche, ma diciamo che lo faccio da anni e per puro svago: non avrei pensato di utilizzarle per scrivere un romanzo. In questo sono stata un po’ ingenua: tutto serve per la scrittura, tutto è materiale. Concluderei dicendo che prima di frequentare uno scrittore o una scrittrice bisognerebbe pensarci due volte…

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