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Una storia vera. Intervista a Nicola Feninno

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Una storia vera è l’esordio di Nicola Feninno, edito da Industria e Letteratura nel 2022 nella collana L’Invisibile diretta da Martino Baldi: alcuni giorni prima dello scoppio della pandemia, Nicola (autore e personaggio? L’autore è il personaggio, su questo aspetto, anche, gioca Feninno) è alla volta di Castelnuovo di Volturno per assistere al rito dell’Uomo Cervo che si svolge l’ultima domenica di Carnevale. Ma in questa occasione ha modo di scoprire che durante la Seconda Guerra Mondiale, il 17 giugno del ’44, gli americani bombardarono la frazione in provincia di Isernia per realizzare un documentario di guerra. La finzione mitica, che è maschera in grado di amplificare il reale, si contrappone all’altra pantomima, per così dire, del combat film americano: una finzione di carattere profano, propagandistico. Feninno fa scorrere una sinfonia di contrappunto tra la maschera del rito e la falsità del volto umano, tra la lotta archetipica degli opposti universali e la guerra che oppone solo e sempre interessi effimeri. In quest’oscillazione, dicotomica e irrisolta, la scrittura di Fennino si agita composta nella ricerca e nella casualità, immagine di superficie marosa increspata, al di sotto della quale si intravede, misurata, la presenza dei personaggi e dei loro vissuti, autore compreso con la sua infanzia, che sono non catalogo o macchietta ma appassionato reperto umano descritto con la puntuale chirurgia di un occhio etnografico. Feninno non lesina uno sguardo poetico sul paesaggio delle Mainarde in cinque capitoli che valgono come altrettante stazioni di un percorso interiore e di apertura all’Altro del territorio tra mito, magia e storia.

Gianluca Garrapa 

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«Anticamente si pregava affinché tutto restasse uguale, che le giornate riprendessero ad allungarsi come ogni anno dopo essersi accorciate, che la primavera tornasse come era sempre tornata, dopo l’inverno.» Il rito dell’Uomo Cervo, de “Gl’ Cierv”, che coinvolge tutta la popolazione, è una pantomima cruenta che mette in scena il passaggio della stagione raffigurando tutto quel che è oscuro e assurdo dell’animo umano. Come nasce il tuo interesse per la performance del rito?

Inizialmente nasce per un motivo molto pratico, banale. Sono sceso a Castelnuovo al Volturno sulle tracce di un’altra storia, che nemmeno è finita nel libro, ne è come scivolata fuori, ha lasciato una coda solo nel sesto capitolo, che poi è un post-scriptum: mi riferisco alla storia del pittore Charles Moulin che, dalla Francia, si trasferì qui all’inizio del Novecento costruendosi un eremo poco fuori dal paese e vivendo di quello che i paesani gli offrivano. Bene, visto che Castelnuovo ha pochissimi abitanti e che molti emigranti tornano proprio in occasione del rito, ho pensato che in quei giorni avrei trovato molte più persone da interrogare. Alla fine, invece, è accaduto che il racconto del rito dell’Uomo Cervo s’inserisse perfettamente nel tessuto narrativo del piccolo libro: la maschera e il volto che ci sta sotto; i ruoli e le persone; e una domanda che è restata inespressa: che differenza c’è, se c’è, tra la messinscena di un rito e quella della società dello spettacolo?

«Quasi sempre, quando sei sulle tracce di una storia, fosse pure la tua propria che hai alle spalle, incappi in una voragine, un baratro, qualcosa che non torna.» Un po’ come il discorso della coscienza, in cui l’oggetto della conoscenza è lo stesso soggetto che sta conoscendo, la tua scrittura racconta un personaggio che coincide con l’autore. In questo senso il punto di vista soggettivo e oggettivo corrispondono, eppure nella scrittura c’è sempre una sfasatura: come è diventato ‘racconto’, e non resoconto giornalistico, l’accadere mitico di una storia vera?

Per me non poteva essere altrimenti. Perché credo che il ‘racconto’, quindi la letteratura, sia ancora lo strumento più potente per raccontare la realtà, con i suoi paradossi e i suoi punti di sprofondamento, senza razionarla; intendo senza schematizzarla. Che poi forse è impossibile non schematizzare, ma con la letteratura è contemporaneamente possibile far implodere quegli stessi schemi.

È proprio la sfasatura della scrittura, come dici bene tu, che m’interessa: quindi sfasatura della voce narrante (che sono io e non sono io), ma anche sfasatura dell’oggetto del racconto (che è la realtà ma anche qualcosa di più, qualcosa d’altro).

«L’infanzia è sempre un miraggio, un montaggio, uno schermo su cui a posteriori s’accampano immagini.» Jacques Lacan sosteneva che il trauma accade dopo, quando il linguaggio fa la sua presa sul presunto evento doloroso. Come cambia il vissuto dell’autore per diventare storia pubblica: quel che non si può raccontare andrebbe trasfigurato o semplicemente glissato?

Ah, io non so cosa andrebbe fatto o cosa no! So che non solo il trauma, ma anche l’incanto accade dopo. E in questo senso s’inserisce il riferimento all’infanzia che si trova nel libro. In particolare, un preciso episodio della mia infanzia. Non perché credo che i fatti miei siano più interessanti di altri. Ma proprio perché m’interessava universalizzare il tema del nodo tra realtà e finzione: non è qualcosa che riguarda solo gli assurdi fatti del vero finto bombardamento di Castelnuovo; né il rito del Cervo; ma qualcosa che riguarda tutti, e intimamente: perché quello che abbiamo le spalle, il passato, le nostre storie, le nostre infanzie, sono come ce le raccontiamo oggi, nel presente.

«Il giorno dopo andai da Pasquale Rufo, che teneva il negozio in piazza e mi sono pensato: mo’ compro una cioccolatina e ce la porto a Maria, così facciamo la pace.» A parlare è Vincenzo, il marito di Maria, alle cui parole ti sei, come scrivi nel Post Scriptum alla fine del libro, attenuto fedelmente. Il tuo racconto ha un carattere corale e registra la lingua del luogo attraverso una mimesi etnografica che mostra i personaggi nel vestito dell’idioma: che rapporto ha la tua scrittura con la ricerca antropologica e linguistica?

Questo è un punto che mi sta a cuore. Più che una mimesi, ho cercato di riportare nel testo un impasto linguistico che riprendesse delle movenze, dei tic, delle andature della lingua (e delle lingue) che ho incontrato a Castelnuovo. Ma non è solo questo. Poi c’è la mia lingua. Anche quella ho voluto inserire nell’impasto. Perché, come dici bene, m’interessava un effetto corale. Ma più in generale e più in fondo, credo che ogni testo debba inventarsi una sua lingua.

«Anche il tempo s’increspa intorno ai punti più densi dello spazio: rallenta; quando la forza di gravità è troppa, sprofonda; e l’equilibrio del tempo e dello spazio si ricrea più lontano, dove continua a orbitare la vita.» Il tuo racconto oppone un rito a un fatto di cronaca, un evento-flusso che si reitera a un accadimento che sì, continua a ripetersi nella forma delle moderne fake news, però rimane un punto senza eguali della storia. Ondeggio e corpuscolo, ritmo universale e suono particolare: con uno sguardo poetico riesci a tessere un racconto che narra il vero senza fare meno della bellezza. Verità e finzione come convivono in un’opera di scrittura breve?

Per rispondere a questa domanda dovrei scrivere un lungo trattato, e probabilmente a metà di quel trattato non sarei più d’accordo con quello che avrei scritto all’inizio.

Provo a girare così la questione: per me realtà e verità non sono sinonimi. La verità è qualcosa di diverso dalla realtà. E forse c’è verità nella letteratura (e nell’arte più in generale) proprio perché scaturisce dallo scontro, dallo sfregamento o dalla compenetrazione tra realtà e finzione.

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