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Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono

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Una delle più truculente storie napoletane – l’assassinio di Maria d’Avalos e dell’amante Fabrizio Carafa per mano del marito di lei, il principe Carlo Gesualdo da Venosa, nella notte del 16 ottobre del 1590 – è al centro di “Madrigale senza suono”, il nuovo romanzo di Andrea Tarabbia pubblicato da Bollati Boringheri. Un romanzo storico, immerso in un mondo affascinante e torbido e degno del confronto coi maestri del genere, a cominciare dall’imprescindibile Manzoni. Anche Tarabbia fa i conti col suo “brogliaccio” – una biografia di Carlo Gesualdo scritta da un fantomatico servo, Gioachino Ardytti – e intesse manzonianamente, sul filo della verosimiglianza, un romanzo pieno di umanità e insieme orrifico, chiazzato da tinte fosche e sublimato dal senso dell’arte. Proprio l’arte è la chiave di volta della vicenda, che muove nientemeno che dall’amore di Igor Stravinsky per la musica incongrua, i madrigali “stonati” e “singhiozzanti”, di Gesualdo e dal suo desiderio di riarrangiarne tre, sostituendo alle voci originarie gli strumenti, per “innalzare un monumento” al principe a quattrocento anni dalla nascita. Nel 1959, durante un viaggio di documentazione da Los Angeles a Napoli, il compositore russo naturalizzato americano rinviene il misterioso manoscritto e, malgrado gli avvertimenti sulla sua probabile natura apocrifa, decide di tradurlo e leggerlo.

L’inizio è già folgorante: “In principio era il verme era presso Dio, e il verme ero io. O forse no: in principio era qualcos’altro, qualcosa che non ricordo, e questa è la fine. Ma comunque si principi, nella fine c’è sempre il verme: questo ho imparato”. Da qui in poi Tarabbia ci guida nella lettura in un continuo rimbalzare tra il tempo di Gesualdo (fine Cinquecento-inizi Seicento) e quello di Stravinsky; e di più, all’interno del manoscritto, tra un presente che vede Gesualdo stanco e avviato alla morte e un passato che ne ripercorre il vissuto intenso e fosco. Intorno al servo storpio Gioachino e al compositore russo, che sono le voci narranti delle due sezioni, si ricompongono le partiture di due mondi: suoni, colori e sentori; mentre sfila sullo sfondo una carrellata di personaggi emblematici delle due epoche: da Aldous Huxley a Giordano Bruno, dal cardinale di Venezia Angelo Roncalli a Torquato Tasso. In particolare Tarabbia ricostruisce con cura il quadro storico della vita di Gesualdo, evocando un’atmosfera perlopiù cupa, enigmatica e magica, percorsa da segni e simboli. La veste sgargiante di Napoli è squarciata per coglierne il risvolto lunare e misterico.

In conformità coi precedenti dell’autore, anche questo lavoro si impernia su un elemento di disagio e di “deformità”. Si tratta di un romanzo tutto giocato sullo sbilenco: la musica “saltabeccata” del principe Gesualdo, i suoi canti che provocano il singhiozzo; le ardite, incongrue evoluzioni compositive di Stravinsky; perfino la camminata claudicante del servo Gioachino. A raddrizzare ogni cosa interviene lo stile netto, prezioso e scorrevole, dell’autore, che lo accosta degnamente ai classici della letteratura italiana. Un gioco di specchi, un racconto spezzato e riecheggiante, più grande e profondo a ogni eco, è pure il contenuto del romanzo. L’assassinio di Fabrizio Carafa e Maria d’Avalos ha uno strascico imprevedibile: un essere, umano o bestiale, chiamato prima “Egli” e poi “Ignazio”, confinato nelle segrete del castello di Gesualdo, sulla cui identità e il cui ruolo a lungo non può fare a meno di interrogarsi il lettore. E poi, quando il mistero lo attanaglia, scopre che quel mistero fa parte di un enigma più grande (Manzoni ormai completamente trasfigurato in Stevenson) che coinvolge Gesualdo, Gioachino, la belva delle segrete e addirittura Stravinsky e che solo nell’ultima pagina della cronaca si scioglie. O forse no. O magari sì, se si guarda al libro oltre i canoni del giallo o del thriller, per quanto reinterpretati.

Nello “zembalo”, la stanza che è rifugio e pensatoio del principe-musico Gesualdo, la “trinità blasfema” dei protagonisti (a vari livelli) del racconto sta alla fine per ricongiungersi. “Mi accuccio, e so di farlo per viltà: quando Egli capirà come funziona la maniglia ed entrerà a far parte di questo disastro di note, corpi e cose che siamo diventati, non voglio che sia io la prima figura su cui poserà i suoi occhi ciechi. Mi sdraio: Carlo è il padre, io non posso dire di essere figlio; sono stato padre anch’io, in un certo senso, ma soprattutto sono stato servo, e compagno, e ombra. Egli, Ignazio, è figlio: mi rimane a ben vedere solo la parte dello spirito, ma non so se meritarmela. Può lo spirito abitare un corpo deforme? Non è chiaro”. Poche pagine dopo, in un crescendo palpitante, cala il sipario: su quale verità, su che piano, sta al lettore scoprirlo. Sta al lettore quasi costruirlo, perché pare che l’autore voglia fermarsi un attimo prima dello svelamento, sospeso in uno stordimento di meraviglia, in un atto di estrema tensione dal profondo significato.

Trapassando i generi, Andrea Tarabbia ha scritto una “allegoria storica” dell’uomo e del genio, dell’arte e della vita, del dolore – una forma di inadeguatezza e struggimento – che l’arte sottende. Ha fatto filosofia, e cioè poesia e matematica, in un libro “ponderoso” e memorabile. Un libro che ha il peso specifico (e l’intima incandescenza) dell’uranio e il valore, scontato ma stavolta autentico, dell’oro.

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