Le fanfare critiche hanno più o meno già suonato tutte per incensare l’ultimo libro di Andrea Vitali, nuova avventura «dell’autore da un milione di copie» come ormai viene definito uno scrittore, che almeno in termini di vendita, non sembra sbagliare un colpo. Non a caso si è parlato di fanfare perché, oltre ad una metafora trombettista dell’odierna critica letteraria, la narrativa dell’Andrea Vitali degli ultimi romanzi è tutto un suono pop d’annata.
La bravura narrativa di Vitali è innegabile ma iniziamo ad assistere ad un fenomeno di scrittore di razza trasformato in scrittore seriale. Come un serial killer Vitali è diventato implacabile: sino a poco tempo fa arrivava in libreria una volta all’anno puntuale come una festa comandata. E la sua, per il piacere dei lettori, più che un obbligo di lettura era ogni volta un’epifania.
Con il successo, consacrato dal passaggio a Garzanti dopo anni di oscura gavetta con racconti pubblicati su quotidiani locali e da case editrici minori, l’appuntamento è diventato semestrale. Ora, addirittura, quadrimestrale, anzi, come a scuola: ad ogni quadrimestre al posto della pagella arriva un romanzo. Un’officina creativa, quella di Vitali, che sembra non fermarsi mai, grande esempio oltre ai cinesi di dedizione al lavoro, e una macchina editoriale che subito si mette in moto per oliare quegli ingranaggi che portano lo scrittore ad essere esaltato praticamente ovunque. Non c’è critico che non abbia incensato il nuovo romanzo, non si sia sperticato in elogi, che lo abbia segnalato come «il nuovo Piero Chiara» o il «Mario Soldati del nuovo millennio».
Paragoni che possono anche inquadrare l’epigonalità di un Vitali che per molti versi (su tutte le ambientazioni e una scrittura che un tempo era definita popolare) può richiamare quei grandi della letteratura. Qui, però, siamo ad un altro livello: Piero Chiara o Mario Soldati rimangono antesignani di un genere che rimarrà nella storia delle lettere: ma Vitali più che letteratura scrive narrativa. Onesta, dignitosa, senza trombe e trombettieri: fa il suo lavoro, lo fa bene, ma la letteratura, lo dimentichiamo sempre, è un’altra cosa. Malgrado siano ben congegnate le storie dello «scrittore da un milione di copie», alla fine, sono storie da caminetto: scaldano il cuore senza bruciarlo.
Non fanno provare, come amava ripetere Nabokov, quel brivido nel midollo che ogni scrittore avrebbe perlomeno il dovere di tentare come obiettivo del proprio lavoro. Più che ai posteri Vitali rimane ai postumi: ai margini di avventurette, tra il rosa e il nero, che hanno lo stesso futuro di chi scrive sull’acqua.
Per l’amor del cielo: di (p)artigiani della penna se ne contano a bizzeffe – da Mauro Corona a Roberto Saviano- ma in Vitali ci si aspetta sempre quel qualcosa in più che, però, non arriva mai. Ad arrivare solo i suoi libri: con ormai tale velocità che si potrebbe pensare di cambiare il calendario e contare gli anni luce in anni luce Vitali.
In attesa, dunque, di un calendario Vitali, magari recensito da Antonio D’Orrico come il calendario più letterario d’Italia, lo scrittore si gode il successo. Che è meritatissimo se solo pensiamo alla sua gavetta e al fatto che il successo, come scriveva Bianciardi, è solo il participio passato del verbo succedere. Qui, però, siamo all’esagerazione: perché il serial killer Vitali, in preda a bulimia narrativa, va a perdersi in storie che hanno il retrogusto del già sentito. È sempre abilissimo nel far calare il lettore nelle atmosfere dei tempi che furono, anche grazie a piccoli accorgimenti essenziali.
Si pensi alla genialità nel trovare ai suoi personaggi nomi e cognomi che in due parole ne riassumono storia e destino: da Crippa Esilio, viveur a Geminazzi Onorato, suonatore di trombetta, da Giona Sapia, commerciante di farina a Malcelati Proto, primario ospedaliero. Ma anche qui: raccontare l’Italia dove veniva prima il cognome e poi il nome non è forse un’idea ripresa narrativamente sin dagli anni 70 dal Loriano Machiavelli del Commissario Sarti Antonio? L’augurio per Vitali Andrea, le qualità le possiede tutte, è di sedersi alla scrivania e se non appendere Almeno il cappello di posare per lo meno la penna per qualche tempo. Chissà mai che, aspettando un anno luce, le sue storie inizino davvero a bruciarci il cuore.
Gian Paolo Serino