Edward Bunker è un autore che anche alle nostre latitudini ha riscosso grandissimi consensi sia di pubblico che di critica. Un successo che, però, risulta alquanto incomprensibile: a parte la sua vita (71 anni dei quali la maggior parte trascorsa tra riformatori e penitenziari di massima sicurezza).
Bunker, almeno come scrittore, è stato più una bestia che feroce.
Eppure anche negli States non sono pochi gli autori disposti a testimoniare le sue qualità narrative: per James Ellroy, ad esempio, “Bunker è uno scrittore autentico e assolutamente originale”, mentre per William Styron “Bunker è tra i pochi autori americani la cui opera esprime insieme integrità, abilità tecnica e passione morale”.
Dopo aver letto tutti i suoi libri imbattersi nei giudizi di Ellroy e Styron rattrista non poco ma, soprattutto, allarma. Ci si domanda infatti: ma Ellroy non aveva smesso di bere? E Styron, autore di romanzi come “Un letto di tenebre” e “Un’oscurità trasparente”, non era uscito dalla depressione?
Interrogativi che sono forse tra i pochi spunti interessanti che emergono dall’ affaire Bunker.
Il suo “Animal Factory”, pubblicato nei Gialli Mondadori quando la “canaglia” non era ancora un fenomeno (più da baraccone che di culto), è a mala pena accettabile, ma i successivi “Cane mangia cane”, “Come una bestia feroce” e “Educazione di una canaglia” imprigionano tra le sbarre della noia.
Eppure per molti scrittori, come Niccolò Ammaniti e Carlo Lucarelli, Bunker è “un autentico etologo della relazione tra società e criminale pari soltanto a Dostoevskij”.
Non siamo vicini al corto circuito, ma quasi: e se vale la penna di sprecare inchiostro sulla “bestia feroce” è solo perché rappresenta un altro caso di “standing ovation” intellettuale di cui non si comprendono le ragioni. Bunker, più che un condannato al carcere della vita, è un forzato della scrittura: prigioniero di un’editoria sempre più convinta nell’inseguire i riflessi da schermo cinematografico.
Eppure l’esistenzialismo da galeotto, oppresso dal sistema giudiziario, è un film visto troppe volte e, soprattutto, nulla aggiunge alla tradizione letteraria dei diseredati.
Bunker annoia proprio perché, malgrado le sue storie siano vere, rasentano la finzione – ancora una volta “forzata”- della cinematografia d’azione: la sua è “social fiction”, è realtà spacciata per finzione in un continuo smercio di storielle che pretendono di raccontarci come la potenza della scrittura possa redimere le peggiori “canaglie”.
Bunker riesce soltanto a graffiare la realtà perché nei suoi romanzi non c’è, come in Dostoevskij, “quella forza visionaria che riesce a penetrare i recessi più intimi del comportamento umano”. In Bunker ci sono solo sbarre nella vita e griglie nella scrittura: tanto che non riesce neppure ad uscire dalla prigione della pagina.
Tantissimi, a questo proposito, i passaggi al limite dell’imbarazzante: perle che si ritrovano in tutti i suoi libri.
Basti citare, ma è solo un esempio, quando a pagina 44 della sua “Educazione di una canaglia” convinto della propria profondità di pensiero scrive: “Chi non legge resta uno stupido. Anche se nella vita sa destreggiarsi, il fatto di non ingerire parole scritte lo condanna ineluttabilmente all’ignoranza, indipendentemente dai suoi averi e dalle sue attività”.
Parole sante, ma da lì ad essere “originali” ce ne passa. Più che da una canaglia è una frase che ci aspetteremmo da un venditore di enciclopedie a rate che, dopo aver visto “Il Gladiatore”, si è andato a comprare le massime di Marco Aurelio e trovandole incomprensibili ha optato all’ultimo momento per un dizionario delle citazioni.
Un altro passaggio illuminante per comprende l’ “originalità” di Bunker è a pagina 446 (sempre da “L’educazione”) là dove si legge: “Esistono molti libri sui delinquenti, ma lo scrittore li osserva sempre,loro e il loro mondo, dal punto di vista della società. Io, invece, volevo che il lettore considerasse il mondo dalla prospettiva del criminale”. Davvero originale se non fosse che, qualche decennio prima, Jean Genet scriveva esattamente le stesse cose. La differenza è che dell’autore di capolavori come “Diario del ladro” o “Il giovane criminale” Bunker non ha nemmeno il riflesso: dov’è infatti la poetica ferocia di Genet? Forse nelle rapine a mano armata della Los Angeles bukowskiana descritta in “Come una bestia feroce”?
Bunker non ha il riflesso nemmeno di Jim Thompson che nel suo “Bad Boy” (pubblicato sempre da Einaudi) è ben lontano dall’esistenzialismo criminale di Bunker: nell’ autobiografia di Thompson l’ansia di vivere diventa sì criminale, ma senza fare necessariamente rima con le sirene della polizia in inseguimenti da telefilm.
Il mondo interiore di Bunker è recluso, quello esteriore è un set cinematografico: due inferni che, comunque, hanno affrontato con maggiore maestria altri autori.
Come dimenticare, ad esempio, l’universo carcerario di un capolavoro assoluto come il “Falconer” di John Cheever? Cheever, pur non avendo mai conosciuto la galera, sintetizza in due righe quello che Bunker cerca di esprimere da una vita: la fuga è semplice come la prigionia.
Eppure Bunker ha stuoli di ammiratori, le sue copertine sono soffocate dall’inchiostro di penne che gridano al capolavoro. A questo proposito, se siete ancora fan convinti di Bunker, rileggete “Come una bestia feroce” con lettura comparata de “I miserabili” di Victor Hugo. Sulle somiglianze si potrebbe scrivere un saggio…
Cito a caso – e ancora una volta è uno dei tanti esempi- da pagina 90 (“I miserabili”, edizione Einaudi Tascabili):
“La caratteristica delle pene nelle quali domina ciò che è implacabile, ciò che abbruttisce, è di trasformare poco a poco un uomo in una bestia selvaggia. Talvolta in una BESTIA FEROCE. I tentativi di fuga di Jean Valjean, consecutivi ed ostinati, basterebbero a dimostrare lo strano lavorio prodotto dalla legge sull’animo umano. Jean Valjean avrebbe rinnovato quei tentativi, così completamente inutili e pazzeschi, quante volte se ne sarebbe presentata l’occasione, senza pensare un momento al risultato, né alle esperienze già fatte. Sfuggiva d’impeto come il lupo che trovi la gabbia aperta. L’istinto gli diceva: scappa! Davanti ad una tentazione così violenta, non restava che l’istinto. Soltanto la bestia agiva”.
Hugo non sintetizza in poche righe tutta la decantata filosofia di Bunker?
E ancora (pagina 91): “Anime cadute nel più profondo possibile della sventura, infelici uomini sperduti nel punto più basso dei limbi dove non si guarda più, i reprobi della legge si sentono pesare sulla testa tutto il peso della società umana, tanto formidabile per chi è fuori, tanto spaventevoli per chi è sotto…”.
E ancora (pagina 95): “Scarcerazione non è liberazione. Si esce dalla galera, ma non dalla condanna”.
Non è tutta qui “l’etologia” di Bunker?
Non è forse il caso che editori e scrittori di casa nostra, ammaliati da qualunque relitto umano che sventoli a stelle e strisce, si rileggano qualche classico prima di imporre come capolavori dei romanzi da macero? Non è forse il caso di usare l’etilometro con Ellroy e uno psicologo con Styron prima di stampare a caratteri cubitali i loro giudizi? Il consiglio è dimenticare Bunker e, magari, (ri)prendere in mano “I miserabili”.
Così, quando leggerete in “Educazione di una canaglia” che “i diamanti nascono solo dal letame” non penserete all’originalità di Bunker, ma ad Hugo quando scriveva “I diamanti nascono solo dalle tenebre”.
Gian Paolo Serino.