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Anilda Ibrahimi anteprima. Volevo essere Madame Bovary

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Nata a Valona, la scrittrice Anilda Ibrahimi ha esordito in Italia con Rosso come una sposa (Einaudi). Ora Einaudi pubblica il suo nuovo romanzo, Volevo essere Madame Bovary, con cui l’autrice torna a raccontare, con l’ormai inconfondibile umorismo, una storia che ha per temi l’appartenenza culturale e la memoria. Hera, la protagonista del romanzo, infatti, è nata in un Paese del socialismo reale, che da piccola leggeva avidamente i libri di Tolstoj e di Balzac, che parte alla volta dell’Italia, stabilendosi a Roma. È nella capitale che diventerà un’artista e creerà la sua famiglia. Fino a quando il richiamo delle origini non si farà sentire con forza, riavvicinandola al passato.

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Paese, fazzoletto sporco

Avrebbe preferito un autunno piú aspro. Fosse stato al suo posto, suo padre avrebbe recitato un verso di Cortázar: «Ti amo, paese, fazzoletto sporco». Ma lei no, quelle parole non riuscirebbe a pronunciarle. Lo ha deluso da vivo, suo padre, e continua a farlo anche ora che è morto.

Torna qui dopo vent’anni e lo fa come l’eroina qualsia- si di uno dei romanzi che tanto le piacevano da ragazza: con il suo amante. A pensarci bene, le esagerazioni han- no sempre fatto parte della sua vita.

È venuta al mondo in una notte piovosa, in una città distratta a brindare per l’anno nuovo. Insieme al nuovo an- no, sembrava che stesse arrivando l’apocalisse. Anche se ormai erano tutti atei, i Quaranta Santi avevano deciso di aiutarli e avevano fermato la tempesta: la città battuta dal temporale portava il nome dei quaranta martiri del monastero di Sebaste, non potevano certo correre il rischio di sparire con lei.

L’acqua rigava le finestre, i tuoni coprivano le grida di sua madre. Era persino saltata la luce, e l’ostetrica ave- va acceso una lampada a petrolio. In quegli istanti, Hera Merkuri aveva fatto il suo ingresso nel mondo. L’ostetrica l’aveva presa e avvicinata alla lampada, poi l’aveva poggiata ancora nuda sulla bilancia. La stanza era ghiacciata, ma la bambina non si lamentava. Composta, teneva il collo dritto e le gambette abbassate, senza agitarsi come fanno i neonati. Era arrivato il verdetto: «La nostra moretta pesa quattro chili e cento grammi!» Un sorriso di stanchezza aveva illuminato il volto di Marika, sua madre.

«Adesso andiamo dal pediatra per i controlli, avrai tut- ta la vita per conoscerla». L’ostetrica, che di nome faceva Libertà, era sparita con la piccola nella stanza accanto prima che Marika potesse protestare. Quella figura bassa e dai passi svelti era il terrore di tutte le donne della città. Non c’era via di scampo, prima o poi si finiva nelle sue mani. «Spingi, spingi, e smettila di urlare, – le diceva po- co prima, – stai mettendo al mondo un soldato in piú per la patria! Il dolore di fronte a quest’orgoglio non esiste. E scommetto che quando aprivi le gambe a tuo marito non ti disperavi cosí tanto!»

Il tifone sembrava finito, era persino tornata la corren- te, ma del dottore nessuna traccia: era pur sempre capo- danno, e anche lui aveva diritto di festeggiare. Hera aveva passato la notte in una culla di ferro, avvolta in una vec- chia coperta di lana grigia.

Era arrivato all’alba, assonnato, a malapena si reggeva in piedi. «Questa qui, – aveva detto a Libertà indicando la neonata, – poteva anche aspettare, che fretta c’era». Era il primo bambino dell’anno nuovo, l’unico in tutto il distretto di Santi Quaranta. Il dottore le aveva poggiato lo stetoscopio freddo sul torace. Non aveva pianto nemme- no in quel momento. Sbrigate le ultime pratiche, l’ostetrica finalmente aveva messo la bambina in braccio a sua madre. «È davvero bella», aveva mormorato Marika tra le lacrime, guardandola per la prima volta. Aveva occhi grandi e neri, e delle sopracciglia che sembravano disegnate. La pelle candida e senza una piega, in contrasto con le labbra di un rosso vivo. «Non è detto che rimanga cosí, non piangere. Si sa, le donne imbruttiscono strada facendo», sghignazzava Libertà. Forse non aveva capito che erano lacrime di gioia. O forse, al contrario, quell’ostetrica aveva capito tutto.

Libertà non aveva mai partorito. Veniva dal Nord, e dicevano che era stata ripudiata dal marito proprio perché non poteva avere figli. Suo fratello l’aveva accolta in ca-sa malvolentieri, cosí Libertà dopo un paio di mesi aveva fatto le valigie ed era salita sulla corriera per Tirana, diret- ta alla sede del Partito. «Compagni, – aveva detto, – quel vecchio reazionario di mio marito mi ha ripudiata. Io vo- glio solo servire la patria e far nascere i nuovi soldati». Erano seguiti il corso da ostetrica e, piú tardi, l’arrivo in quella città nel Sud del Paese. L’unica volta in cui l’avevano vista mostrare un sentimento umano, lacrime gran- di come gocce di pioggia che le scendevano sulle guance e le bagnavano i baffi sottili, era stata quando una ragazza aveva partorito un figlio morto. «Un soldato in meno per la patria, – singhiozzava. – Ma adesso, compagna, è ora di trasformare il dolore in forza», e aveva abbracciato la donna che lasciava l’ospedale a mani vuote.

La figlia di Marika, invece, anche da viva era riuscita un po’ a sciogliere l’ostetrica rivoluzionaria che odiava le smancerie. Davvero un bell’inizio per la sua bambina.

Superato l’ostacolo Libertà, l’infanzia era filata liscia. In fondo era stata una bambina felice.

Le cose si erano complicate durante l’adolescenza. Man mano che cresceva, insieme al rosa dei vestitini che indossava da piccola spariva anche il sorriso.

Un giorno di molti anni dopo Estia, la figlia di Hera, stava sfogliando un vecchio album di fotografie. «Mam- ma, chi sono questi due brutti ragazzini?»

«Brutti… Non sono poi cosí terribili, sarà colpa della foto sfocata».

Uno di quei brutti ragazzini era lei, Hera, l’altro una sua amica. Se lo ricorda pure, quel giorno, andavano in prima media, portavano pantaloni blu e magliette bianche. I capelli corti, quasi a spazzola. La profezia dell’ostetrica si era avverata.

Tutta colpa di quel russo. Voleva costruire l’Uomo Nuovo sovietico, e già che c’era pure quello albanese. Nel pacchetto, ovviamente, erano comprese anche le donne.

Hera cammina senza esitazioni verso la fila dei taxi. Il trench poggiato sulle spalle lascia intravedere quant’è di- versa adesso dal ragazzino della foto.

Il tassista le strappa il trolley di mano e lo butta nel portabagagli. Spalle larghe e braccia muscolose, una maglietta stretta che fatica a coprire la pancia tonda. Parla un inglese quasi britannico. «Che strano, – aveva detto a Hera un amico a Roma tempo prima, – sono arrivato a Tirana convinto che tutti parlassero la nostra lingua».

«La parentesi coloniale è durata troppo poco per con- servare l’italiano, – aveva risposto lei. – Siamo stati otto- mani per cinque secoli e nessuno parla il turco».

«Siamo abituati a considerarci come il sogno degli al- banesi. Pensiamo di trovare un popolo che ci brama e che impara la nostra lingua per essere pronto».

«Pronto a cosa?» aveva chiesto Hera incuriosita. «Pronto a raggiungerci».

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