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Anna sta coi morti. Intervista a Daniele Scalese

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Daniele Scalese, Anna sta coi morti, Pidgin edizioni, 2023, collana Ruggine.

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Anna sta coi morti racconta la vita e la morte e quel restare sulla soglia di un’attesa. A partire anche da vicende biografiche, l’autore con stile minimale e straniante, racconta la malattia e la speranza, il miracolo, quasi, del desiderio che trasforma e muta un destino apparentemente già segnato. La scrittura del romanzo potrebbe trasmutarsi in una sceneggiatura, in un film che metta in immagine-movimento il bilico tra l’intimità di un dolore, per definizione inesprimibile, il buco del reale, del corpo che non può parola, da un lato, e dall’altro l’estensione simbolica della narrazione che espone il proprio percorso interiore al riconoscimento mediatico dell’altro. Anna sta coi morti è un breve, intenso, viaggio nella trasversalità delle vite, nelle ombre che richiamano luce, nei rumori che risucchiano tenebre…

Genesi e desiderio del tuo libro.

Anna sta coi morti è nato in metropolitana mentre raggiungevo due amiche a una festa: lì c’era la musica alta e dovevo alzare la voce per sentire come la storia veniva fuori. Dissi di voler raccontare la contaminazione della tragedia, che rivoluziona chi ne entra a contatto, tirai fuori un caso di cronaca nera, la strage di Erba del 2006; ricordo la figura di Azouz Marzouk, che prendeva spazio in tv, e sembrava sempre più a suo agio. L’ho collegato successivamente a una conoscente che s’è ritrovata protagonista di un programma televisivo, a quanto sia cambiata una volta dentro la tv. Nelle settimane successive invece la malattia di una persona a me molto vicina ha richiamato quella di mio padre, e la storia s’è trasformata nel racconto di un’attesa: quella della fine, a cui contrappongo quella dell’inizio. Per questo motivo, Anna sta coi morti racconta come si aspettano una morte e una nascita, all’interno di una coppia che si sta sgretolando. La gravidanza di Anna dovrebbe compattare la coppia mentre la malattia ne accelera l’allontanamento: il libro è un gioco a chi tira di più.

Quando scrivi, godi?

Molte volte mi diverto quando scrivo, mentre mi entusiasma l’attesa della scrittura (ad esempio quando sono a lavoro e penso che a breve sarò a casa e potrò scrivere). Però c’è anche un’immagine suggerita da Roth, “scavo una buca e la illumino tutta con una torcia”: mi ci ritrovo. Scrivere il più delle volte è guardare fuori per capire se c’è una corrispondenza o un divario con quello che c’è dentro, e quando si va dentro si trovano i ricordi, gli scarti, i segreti. Scrivere a quel punto diventa recuperare ricordi e suggestioni e rimettere tutto insieme, in ordine compiuto, all’interno di una storia.

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché?

Il momento più delicato è quasi sempre l’incipit, basta sbagliare una parola per sabotarlo. In questo caso, c’è un capitolo che ha richiesto molta attenzione, e mi riferisco a un dialogo tra Enzo e l’obitoriale Alberto; il compagno di Anna non nasconde che insieme a lei ha deciso di avere un figlio per salvare la relazione: Alberto è però convinto che la scelta porterà la coppia a disintegrarsi del tutto e, al termine di una lunga riflessione, afferma che solo una tragedia può avvicinarli. Il discorso tocca molti temi e viene sintetizzato da questo estratto: Il consumismo è il tentativo di riempire un vuoto interiore con le cose; la relazione fa lo stesso con le persone. Tutto nasce da un vuoto. Ne riempi uno e ne formi un altro. Ma fare un figlio non riempirà il vostro vuoto: lo allargherà.

Credo sia un passaggio simbolico del testo, un presagio.

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Mi piacerebbe fosse un film diretto da Pupi Avati (a cui devo tantissimo per La casa dalle finestre che ridono), o da Matteo Garrone (per L’imbalsamatore) o da Michele Soavi (per Dellamorte Dellamore): i titoli citati hanno dato molti impulsi alle atmosfere e alla poetica del romanzo.

Che rapporto hai con la censura?

Ho trovato una casa editrice, la Pidgin, totalmente rispettosa dello spirito del testo. Sono stato più io a limitarmi. Più si va in avanti nella revisione di un testo che si sta scrivendo, più subentra una forma di controllo, mutuata dalla paura di ferire un ipotetico altro. Lo scrittore si tutela, nel tempo. Prima tendevo a provocare tanto, sui social, e questo mi levava molta energia. Ora voglio raccontare. Forse lo faccio per proteggere me, vivere con più serenità. Se sono sereno scrivo meglio.

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Chi scrive non è in pace forse col mondo in cui vive, sente un divario tra sé e quel mondo, la scrittura è probabilmente la fune che tiene attaccato al resto delle cose, all’altro, e in mezzo c’è il precipizio. Con la storia, lo scrittore cerca un equilibrio tra forze opposte, e nel caso di Anna sta coi morti si insegue una sintesi tra la sovraesposizione mediatica e l’intimità della malattia, tra Anna ed Enzo. Io non mi metto a scrivere con la necessità di contestare qualcosa; quella è una condizione già introiettata e metabolizzata, e la storia che si sente la necessità di raccontare è quindi la risposta dello stomaco e della testa a quello che vive.

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