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Antonello Saiz racconta Leonardo Sinisgalli, Giuseppe Lupo e la “lucanità”

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«Perdonatemi se i fiori stentano ad aprirsi, se l’esplosione è troppo lenta, se le gemme non spuntano. Perdonate il viso duro, lo sguardo ingrato dei miei arbusti. Voi sapete con che acqua ho innaffiato il mio giardino. Devo fare sforzi feroci per rimuovere la zolla troppo arida, devo spingere il seme sotto terra. Non ho avuto una spanna facile. Mi sono contentato dell’ultima aliquota, quella che era rimasta invenduta. E ho sudato per trasportare nuovo humus, per riparare dal vento qualche striscia di terra, qualche aiuola. Tutti voi avete beneficiato di un pozzo d’acqua fertile. Io sono venuto tardi, quando l’acqua era già tagliata e divisa.»

Calcoli e fandonie, Leonardo Sinisgalli, Hacca 2021

A quarant’anni dalla morte del poeta-ingegnere lucano Leonardo Sinisgalli, la Hacca edizioni ha pensato bene, dopo Pagine milanesi (prose legate alla cronaca di una topografia culturale e frammenti di un viaggio interiore, pubblicati nel 2010), di dare alle stampe questo prezioso libro pubblicato con una cover pazzesca di Maurizio Ceccato. Lo si trova nella collana Novecento, diretta da Giuseppe Lupo a cui – in contemporanea con l’uscita del suo libro per Aboca edizioni, Il pioppo del Sempione, – abbiamo chiesto, durante una magnifica chiacchierata in Rete, come mai Leonardo Sinisgalli possa essere così attuale e riuscire a illuminarci ancora con le sue pagine visionarie e audaci.

Giuseppe Lupo, prima di raccontarci della sua ultima fatica letteraria, ci ha ammaliato con il suo eloquio spiegando che questo testo è un caleidoscopio di intuizioni matematiche e poetiche, con slanci verso il futuro e richiami della memoria, al punto da risultare preziosissimo. Inoltre ha sottolineato come ogni lettore dovrebbe tenerlo sul comodino per ricordare che la ragione, se unita alla poesia, può salvarci dal buio più profondo, anche quello di questi tempi.

Dunque, Calcoli e fandonie fu pubblicato per la prima volta nel 1968 da Alberto Tallone ad Alpignano, con il titolo di Archimede, i tuoi lumi, i tuoi lemmi!. Solo due anni dopo, nel 1970, giunse in libreria modificando nome ed editore. Il libro aveva la fisionomia di un diario politecnico perché radunava una serie di considerazioni scientifiche, architettoniche, letterarie, artistiche, che avevano accompagnato l’ingegnere-poeta negli anni Sessanta, segnati dai definitivi processi di industrializzazione del Paese.

Se la matematica era stata il fuoco grande della giovinezza, i capitoli che qui vi si radunavano rappresentano la brace rimasta ancora accesa, gli ultimi bagliori di una fede inestinguibile nonostante le incrinature del tempo, l’affievolirsi delle certezze, le pause della memoria. Ed è anche il ritratto di un intellettuale, che ha continuato a credere nella modernità come unica via d’uscita per la condizione umana.

Leonardo Sinisgalli era nato a Montemurro, un paesino in provincia di Potenza, a una manciata di chilometri dalla mia Tramutola, nel 1908. Per la sua versatilità è stato definito “un Leonardo del Novecento”, in quanto è stato narratore, pubblicista, direttore artistico, direttore di riviste, documentarista, autore radiofonico, disegnatore.

Si laurea in ingegneria quando ha già stretto amicizia con poeti e scrittori. I suoi primi versi, nel frattempo, vennero citati da Ungaretti sulla Gazzetta del Popolo e le 18 poesie stampate a Milano da Scheiwiller nel 1936 attirarono l’attenzione di Cecchi, mentre De Robertis dedicò al libricino poco più grande di un francobollo, un famoso saggio sul primo numero di Letteratura.

Due anni dopo uscì Campi elisi, sempre nelle piccole edizioni milanesi del Pesce d’Oro: ne scrissero subito Contini, Bo, Anceschi. Dal 1936 fino allo scoppio della guerra diresse a Milano l’ufficio tecnico di pubblicità della Olivetti. Nel dopoguerra fu consulente della Pirelli a Milano, poi della Finmeccanica a Roma. Fu chiamato come esperto da Mattei all’Agip, poi all’Alitalia. Ha fondato e diretto per cinque anni la rivista Civiltà delle Macchine, nota in tutto il mondo.

Dopo aver avviato una consulenza con la Bassetti e l’Alfa Romeo Sinisgalli ritornò a Roma nel 1964, dove fondò e diresse la rivista di design La botte e il violino. Poeta, saggista e critico d’arte italiano, noto appunto come “Il poeta ingegnere”, ma anche come “Il poeta delle due muse”, questo perché in tutte le sue opere ha sempre fatto convivere cultura umanistica e cultura scientifica.

Libro che viene a illuminarci, Calcoli e Fandonie, esattamente come quest’ultimo pubblicato da Giuseppe Lupo, scrittore lucano di Atella che, sulla scia dei precedenti romanzi, prova a mettere ordine nel magazzino della sua memoria.

Ma mentre ne Gli anni del nostro incanto del 2017 e Breve storia del mio silenzio del 2019, la Basilicata, le origini, Milano e la modernità erano fortemente presenti e osservate, qui lo scenario è un altro. Perché ne Il pioppo del Sempione l’ambientazione è fortemente lombarda.

Giuseppe Lupo, docente di letteratura all’Università Cattolica, scrittore di saggi e romanzi, curatore editoriale, collaboratore per Avvenire e Il Sole 24ore, con questo libro ha accettato l’invito del curatore editoriale, Antonio Riccardi, di raccontare una storia intorno a un albero. Lo fa per la Collana “Il Bosco degli scrittori”, dove hanno raccontato le loro storie vari scrittori, da Antonio Moresco a Enrico Brizzi, da Carmine Abate a Ferruccio Parazzoli. La scelta di un pioppo lombardo e l’idea di spostarsi nell’hinterland, lungo la strada del Sempione che da Milano porta alle Alpi, serve per un racconto sul potere salvifico delle storie e sulle strade testimoni delle trasformazioni.

Siamo in una scuola serale del profondo Nord, a Legnano, nell’anno della seconda guerra del Golfo, il 2003, e c’è un giovane professore che insegna italiano a una classe di immigrati di diverse nazionalità. Vi troviamo magrebini, albanesi, sudamericani, perfino Rafkani, un quarantenne con tre figli e una laurea in ingegneria conseguita in Iraq, che lavora come operaio in una ditta di tubi di plastica dove, in una pressa, ci ha pure perso due dita. Parla come un indiano dei film western e aiuta coi calcoli Amin l’albanese, partito a bordo di un gommone e arrivato a Brindisi a nuoto, che col tempo è riuscito a mettere in piedi un’impresa con una decina di carpentieri alle sue dipendenze. C’è Mohammed, il più silenzioso degli alunni, che a un certo punto della storia scompare. Poi Cesar e Apollinaire, padre quarantenne e figlio ventenne, sbarcati in Italia dalla Costa d’Avorio con un carico di dolore lasciato in patria.

Le loro lezioni sono però insolite perché a ravvivarle, sul finire, arriva un nonnetto chiamato Paplush, personaggio amato da tutti e memoria storica del luogo. Si affaccia alla porta, si siede in prima fila e inizia a raccontare la sua giornata e il suo passato. Di quando, insieme a Ottavio, faceva l’operaio alla teleria, “la madre che ci ha dato da vivere”; di quella volta che nel 1954 sorprese Fausto Coppi a fare pipì su un muro vicino la Corte del Villoresi e non ebbe la forza di dirgli nulla di sensato; di quando frequentava la vecchia locanda dove la giovane Rossana “la Rossa” sognava di fare la ballerina e intanto cucinava per tutti e cresceva un figlio non riconosciuto dal padre, un ingegnere che da Rimini la aveva piantata in quella locanda lungo il Sempione. Ma fra i ricordi agrodolci di Paplush c’è una figura che ritorna sempre, l’antico pioppo della Corte del Villoresi.

Quando racconta, nonno Paplush diventa un altro, da timido signore che spera di essere ascoltato diventa imponente come l’albero dei suoi racconti: fiero, con la voce eroica e ferma, capace di incantare quella classe insolita a cui dei verbi interessa poco. La scuola per quei ragazzi diventa solo una occasione per stare insieme – in fondo, si sono iscritti per avere un permesso di soggiorno. Ma in quel raccontarsi trovano la loro formula per convivere al meglio. Tutti personaggi coinvolgenti e affascinanti con le loro singole storie, capaci di creare forte empatia col lettore.

Si staglia su tuti Paplush, con quel nome impalpabile che richiama nel suo dialetto i fiori dei pioppi e gli conferisce un alone di mistero anche sulla provenienza (il libraio /lettore in quel viaggio lungo una notte intera, ci vede ovviamente la sua Lucania, la stessa dello scrittore Lupo). Di nonno Paplush sappiamo veramente poco, nonostante la concretezza delle storie che racconta resta come sospeso. La sua stessa identità rimane un mistero, fino a quella processione finale al cimitero organizzata da Amin.

Un romanzo fortemente centrato sulla memoria, Il pioppo del Sempione, a partire da quel pioppo nella Corte del Villoresi con cui il nonno ha un legame speciale e che lui ha battezzato “paplush” per sostituirne uno della sua infanzia. Un albero che esiste per compensare una perdita in quel luogo dove le montagne diventano, poeticamente, impalcature a sostegno del cielo, dove la vecchia fabbrica, il trofeo ciclistico Bernocchi, la locanda di Rossana, Libero Ferrario e pure Fausto Coppi diventano rispetto per la memoria. Anche romanzo sull’accoglienza e sulla disponibilità verso l’altro, in tempi dove questa arroganza tutta occidentale augura ruspe sugli esseri umani: del resto cosa lega Paplush a questi ragazzi provenienti da mondi diversi, se non l’esperienza di essere come loro trapiantato in una terra che non gli appartiene e che più spesso non lo vuole?

La storia di un vecchio che parla di un pioppo come di uno di famiglia, che ha persino soggezione quando lo guarda, nello svilupparsi della storia diventa una favola sulle prospettive di miglioramento offerte da una terra straniera. Una favola sulla speranza, che viene a cadere in un anno straordinario come quello appena passato proprio perché fuori dall’ordinario. Una favola sulla scuola e l’insegnamento, dove il fare scuola diventa un modo per sostenere le impalcature del mondo, esattamente come le montagne fanno per il cielo…

Giuseppe Lupo incanta con le sue storie. Che racconti le storie degli altri o parli di sé stesso, ha sempre una gran cura per i dettagli e grande rispetto per le singole storie. È bello, per usare l’espressione di un suo personaggio in un altro libro, fare “un po’ di sugo”, fare cioè provviste di parole e immagini per questi mesi da passare ancora tra le mille difficoltà di una pandemia in atto. Le storie di Lupo, come le parole di Sinisgalli, con la loro modernità e “lucanità”, possono essere quel po’ di sugo che serve per sfamarci e illuminarci il cammino e, magari, innescare qualche riflessione profonda.

Antonello Saiz

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