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Antonio Schiena. Chiodi

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Per lo scrittore americano Henry Miller la crescita non è altro che un lungo e imprevisto salto nel buio. Un atto spontaneo, inevitabile ma anche estremamente pericoloso in quanto incapace di appoggiarsi al beneficio di nessuna esperienza pregressa. Crescere dunque può essere sinonimo di saltare, varcare il confine tra un prima e un dopo, crescere però a volte significa anche ribellarsi, raggiungere una consapevolezza nuova di se stessi, dei propri sentimenti, degli stati d’animo, del modo in cui gli altri si rapportano a noi, di ciò che si è subito che non si è più disposti ad accettare.

«Chi fa le cose per rabbia non ha paura», è la frase con cui viene lanciato il nuovo romanzo di Antonio Schiena e di rabbia in Chiodi se ne percepisce parecchia. Una collera che si accumula gradualmente, goccia dopo goccia o forse sarebbe meglio dire chiodo dopo chiodo che, in questo caso, non vengono scacciati, bensì conficcati nel braccio di un burattino inerme (nessuno spoiler, lo troviamo anche in copertina).

«Legno duro, cilindrico, freddo. C’è solo quello, che con i suoi quaranta centimetri occupa una bella porzione di spazio là sotto, ma Marco si prende sempre qualche istante per cercarlo, come se così lo rendesse ancora più prezioso. Lo stringe e lo tira a sé. Stretto tra le mani ha il braccio mancante di Pinocchio.»

Si torna dunque sempre lì, ai bordi di quel labile confine tra l’essere bambini e capire come stanno davvero le cose e spesso a sostare su quel margine cedevole si corre il rischio di restare soli, senza una mano a cui aggrapparsi, con il pericolo di franare ancor prima di poter urlare. Papà non c’è mai stato e mamma è troppo impegnata nel mondo degli adulti, tra bollette da pagare, una casa a cui badare e nuovi incontri per sopprimere i silenzi, Marco Torre dunque è solo, tra le mura di casa così come a scuola.

«Si spoglia e non gli basta non guardare lo specchio per ignorare le gambe troppo magre, il petto cereo, le dita delle mani pelose e le orribili unghie che continua a mangiarsi. Entra in fretta nella vasca, senza dare al suo corpo il tempo di acclimatarsi, e il calore dell’acqua lo investe colpendolo fin dentro le ossa. Ora è al sicuro, nascosto dalla schiuma e dal caldo. È in quella frazione di secondo che è felice, appena entra nella vasca. Non vede niente e non sente niente, è vuoto, è protetto, è solo. È così che vorrebbe vivere.»

Un ragazzo schivo e introverso, confinato in un corpo che non apprezza e che lo mette in imbarazzo al solo guardarsi davanti allo specchio. Marco Torre è il bersaglio di Gianmaria e della sua banda di bulli, lo chiamano pisciasotto a causa di un infelice episodio del passato che ancora grava sulle gracili spalle. Scrollarsi di dosso la polvere dell’ingiuria non è semplice, ancor meno tra i banchi di scuola, quando si è sotto gli occhi e il giudizio costante del branco, tocca quindi compiere un atto di forza, un rito di passaggio che dimostri al mondo che non si è fatti di soli tremori e debolezze. La leggenda dell’Avvinto pare creata apposta per questo. Un lugubre cimitero ai margini del paese, un custode che si aggira per le lapidi accompagnato dal suo fido compagno a quattro zampe e un’ombra nel suo passato che fomenta l’immaginazione degli adolescenti da generazioni: ingredienti perfetti per dar vita a un gioco pericoloso che si ripete negli anni.

«Avrebbe dovuto cercare in sé la forza per ribellarsi, per cambiare almeno le piccole cose che potrebbe cambiare, come un posto a sedere, ma è troppo debole persino per quello. La debolezza è una colpa e le colpe vanno espiate: la punizione è la sopportazione di quel banco.»

Schiena mette in scena un romanzo di formazione che attinge dalla fabula per rappresentare la difficoltà del crescere e del venire a patti con le stilettate di una società in cui il branco la fa ancora da padrone. Tra echi kinghiani (i pensieri interiori in italico) e tributi consapevoli ai classici dell’infanzia (L’isola del tesoro su tutti), il romanzo può contare su impianto narrativo circolare, godibile ed estremamente curato.

Sul fronte meramente strutturale, se Amico mio di Gianmarco Perale (NNE) ci aveva gettato in un ossessivo vortice dialogico, Chiodi lavora nella direzione opposta. Servendosi di una terza persona che alterna il punto di vista bambino/custode, la prosa dell’autore romano dimostra una maturità autoriale che predilige l’uso di descrizioni articolate e un linguaggio corporeo fortemente presente, riducendo gli scambi verbali a iconici passaggi o chiuse di paragrafo che invogliano furbescamente il lettore a procedere nella lettura.

«Essere soli non è male. Essere circondato dalle persone sbagliate è molto peggio».

Marco Torre è un protagonista credibile e il suo muoversi tra casa, scuola e cimitero è un vagabondare di smottamenti e precipizi in cui tutti ci si riconosce. La sua insicurezza è specchio di un vissuto condiviso, il suo rapporto con il custode, un frapporsi di silenzi, imbarazzi e rivelazioni che scalda il cuore e in alcuni frangenti mi ha ricordato quello padre/figlio tratteggiato da Macioci nel suo Lettera d’amore allo yeti (Mondadori) anche se in questo caso l’orrore generato sulla coppia non ha nulla a che vedere con creature diaboliche o realtà parallele.

Il male in Chiodi è qualcosa di reale, profondamente tangibile ma, proprio per questo, affrontabile. Una storia di ragazzi che non parla solo ai ragazzi e in questo vince la sua sfida letteraria. Un atto di ricostruzione e cura, il tentativo sincero di ridare forma alle cose rotte, modellare gli sbagli compiuti, farne materia nuova e appiglio per risalire la voragine, non necessariamente soli.

Stefano Bonazzi

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Chiodi

Antonio Schiena

Fazi Editore

17,00 euro — 180 pagine

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