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Appunti. Intervista a David Watkins

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Appunti è il nuovo libro di David Watkins edito per Arcipelago Itaca nel 2023 in Lacustrine, collana diretta da Renata Morresi, e con la postfazione di Giuseppe Nava. Appunti è una raccolta di prose che mostrano l’interstizio del reale e il limine delle azioni prima di farsi gesto: in questo senso la scrittura di Watkins, cristallina e a tratti comica, si colloca «in una zona liminale e inesauribile a un tempo.» Le prose brevi di Appunti ci regalano una visione straniata di un mondo quotidiano tragicomico che l’autore riesce amabilmente a rendere quantico, di luce, fotonico, farci vedere l’invedibile che pure ci accade sotto gli occhi, intorno al corpo, nel dentro dell’organismo umano, il che dona la sensazione di ritrovare un flusso rassicurante, e come l’autore si ha «la sensazione gioiosissima di non aver inventato niente, di essere entrato dentro a qualcosa che mi precede». Appunti si apre con un esergo di Robert Walser, autore amatissimo da Watkins che sa trasmettere, con la sua scrittura, quel nulla, quell’umiltà grandiosa del niente che pure ci sostiene. Polvere e polvere. Forse è per questa evidente capacità di mostrarci l’immateriale che il libro di Appunti potrebbe benissimo essere una «radiolina portatile», un materiale visibile che sappia trasmettere le immateriali onde del suono. E come in uno spazio radiofonico puoi solo immaginare il volto della voce, allo stesso modo «la censura è nel modo in cui immagini l’occhio da cui immagini di essere letto»: l’occhio che ci leggerà, che non ci leggerà: o che ci ascolterà, sarebbe meglio dire. Il ritmo delle prose di Appunti è arioso, traduce il significante musicale delle cose, è uno scorrere verso, un andare fuori, un abbandono gioioso del sé stessi: «quella cosa da cui scrivere mi fa prendere un po’ le distanze». La prosa di Appunti è danza e distanza, e leggerezza di gioco, esercizio di desiderio e di sguardo…

Genesi e desiderio del tuo libro.

La sensazione di rivivere sempre di nuovo l’istante che precede qualcosa che però non accade. Sensazione piuttosto diffusa, ai nostri giorni, se si pensa a come vanno le cose nel cosiddetto mondo del lavoro e nei suoi sterminati dintorni. Questo continuo formarsi per non si sa bene che cosa. Questo costitutivo rinvio dell’inizio. Non che si tratti di una sensazione circoscrivibile ai nostri giorni, d’altra parte. Kafka, Beckett, Musil lo conoscevano assai bene, il senso di essere rimasti impigliati in un preliminare, in una zona liminale e inesauribile a un tempo. Mi aveva colpito molto un’espressione incontrata leggendo L’uomo senza qualità, dove a un certo punto si parla di una prigionia dei preparativi… 

Comunque, se il punto di partenza è questa gabbia affettiva, questo tran-tran del prepararsi e del tendere a, l’esigenza che parla nel libro non è quella di testimoniare dall’interno il dramma della prigionia e dei momenti di stallo, ma quella di trovare, attraverso la scrittura, delle voci che possano sdrammatizzare la triste, ansiolitica seriosità a cui questo stato di tensione senza sbocco ci costringe giorno dopo giorno a aderire. Sdrammatizzare: a volte, nel senso di volgere al comico, altre volte in quello, più letterale, di togliere di mezzo l’azione, lasciare sulla pagina soltanto le ore buche, gli interstizi del tempo, quando non accade nulla, e non c’è più niente da realizzare – solo il viavai di arie e climi e personaggi da cui siamo costituiti. 

Quando scrivi, godi?

Quando scrivo, godo molto più di quando parlo. Soprattutto se scrivo prose brevi. Non saprei dire esattamente perché, ma le prose brevi mi danno l’impressione di essere una forma incline al godereccio. Il che non significa non possano essere serie, anzi; solo, mi pare che anche la serietà, grazie a loro, possa assumere un andamento scanzonato, scrollarsi pesi di dosso, acquisire una leggerezza che, in altre forme, mi è più difficile intercettare. Mi stanno simpatiche anche perché sanno fare buon uso dell’indecisione. 

Un aspetto della scrittura che mi procura un godimento particolare è quando scrivo una cosa che mi piace, e sono tutto felice, e poi, dopo qualche tempo, ritrovo quella stessa cosa, se non uguale uguale eccoci quasi, in un libro che avevo letto tempo addietro, e che però non ricordavo, e allora ho la sensazione gioiosissima di non aver inventato niente, di essere entrato dentro a qualcosa che mi precede, di aver dimenticato-fino-al-punto-di-diventare quello sguardo sulle cose, quel modo di percepire il mondo che mi era rimasto addosso a mia insaputa. 

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché?

In effetti di questa materia all’apparenza così poco interessante si possono osservare, andando per così dire un po’ più in profondità, cose che di scarso interesse non lo sono affatto. Questa, ad esempio, che se soffiamo sulla cenere non c’è assolutamente nulla in essa che opponga resistenza per non volarsene via in un baleno. La cenere rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificante, l’assenza di valore. E, ciò che è ancora più bello: essa stessa è pervasa dalla sensazione di non valere nulla. Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere? È davvero difficile. Si può essere più arrendevoli e più pazienti della cenere? Certo che no. La cenere è priva di carattere, e dal legno di qualsiasi essenza è ancor più lontana di quanto non lo sia lo scoramento dall’euforia. Dove vi è cenere, non vi è in fondo proprio nulla. Metti il piede sulla cenere, e quasi non ti accorgerai di aver calcato qualcosa”.

Se sia risultato difficile, non saprei dirlo, ma considero questo estratto particolarmente importante. Perché è l’esergo del libro. E l’ha scritto Robert Walser. 

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Una radiolina portatile. 

Che rapporto hai con la censura?

La censura è nel modo in cui immagini l’occhio da cui immagini di essere letto. Per immaginare di essere letti ci vuole, appunto, una bella immaginazione. Sai benissimo che sarai letto da praticamente nessuno, ma c’è qualcosa, in te, che si rivolge comunque a un ipotetico occhio di lettore. È patetico, ma come tutte le cose patetiche, è anche molto profondo e difficile da eliminare. È un delirio psicotico e normalissimo, che può produrre gli effetti più diversi. Anche perché in quell’occhio ipotetico, non essendoci di fatto nessuno, ci puoi mettere chiunque, anche un Samuel Beckett che sbircia le tue pagine e ti dice che è ‘sta roba. A seconda di chi occupa quella tribuna immaginaria, e a seconda del rapporto che di volta in volta ci instauri, la censura, che altri chiamano super-io, può indurre al disastro di un silenzio atterrito o di un tentato compiacimento, così come, d’altra parte, può venire in tuo soccorso, aiutarti a sgrassare la scrittura, o farti capitare in una frase che mai avresti pensato. Tocca giocarci di sponda, come dice un mio amico, Andrea Muni, a proposito dei sensi di colpa.

Come che sia, quando la scrittura parte per davvero, quando non è più la frase a cercare il proprio ritmo, ma è il ritmo a tracciare la frase, allora si sente: si entra in un umore più arioso, che sembra quasi bastare a sé stesso e che non ha più nulla a che spartire coi tribunali immaginari e i suoi censori. 

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Contestare, ma senza impelagarsi troppo nella polemica, con il presentimento che sì, anche stavolta, è probabile che il bersaglio della mia contestazione sia vicino, tanto vicino da confondersi con me stesso, quella cosa da cui scrivere mi fa prendere un po’ le distanze.

Gianluca Garrapa 

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David WatkinsAppunti, Arcipelago itaca ed. in Lacustrine Collana diretta da Renata Morresi. Postfazione di Giuseppe Nava, 2023

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