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Bret Easton Ellis. Le schegge

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Non ricordo se vi ho mai raccontato dell’embargo al quale un tempo sottoposi i libri di Ellis per via di quella stupida rivalità tra lui e David Foster Wallace. È una storia imbarazzante e assurda che non vale la pena di essere raccontata. Ne parlo unicamente per dare la misura di quanto fosse importante tra gli anni Ottanta e Novanta negli Stati Uniti un certo discorso sul linguaggio, di come un preciso mood letterario “nell’epoca minimalista ispirata dalla new wave e dal punk in cui sguazzavamo nel 1981” a un certo punto (1987) finisse per scontrarsi con una nuova forma di massimalismo che sembrava archiviata con il miglior Pynchon, e di come tutto questo logos si riflettesse tra i lettori dell’uno e dell’altro autore traducendosi in un delirio collettivo ad excludendum. 

Tredici anni dopo Imperial Bedrooms, Bret Easton Ellis ritorna alla narrativa col romanzo forse più ellisiano di tutti. Si dice che Ellis scriva sempre lo stesso libro e Le Schegge (The Shards – Einaudi – traduzione di Giuseppe Culicchia) per molti versi conferma questa – virtuosa non noiosa – coazione a ripetere iniziata con Meno di zero, l’opera che a soli vent’anni scaraventò l’autore californiano on the stage della letteratura yankee o, se preferite, sull’onda anomala del Brat Pack, a surfare insieme a scrittori come Tama Janovitz e Jay McInernay (nel romanzo McInernay viene citato in un flashback datato venerdì 12 settembre 2008: quel venerdì David Foster Wallace si impiccò nella sua casa di Claremont, a poche miglia dal luogo indicato. È un caso che Ellis abbia collocato il finto appuntamento con McInernay proprio in quel weekend? Chiusa parentesi).

Meno di zero Ellis lo adopera come canovaccio per raccontare non solo la gestazione del romanzo ma per ripercorrere le tappe di avvicinamento a un successo che lo ha travolto fin dagli esordi contro ogni pronostico. L’operazione si spinge oltre la metafiction: Ellis esce dal primo romanzo (“ma non c’era una storia, c’erano scene ma non aveva una vera e propria trama, c’era solo un tono sordo, divagante, che cercavo di perfezionare”) per diventare se stesso e traslocare insieme al plot nell’altro libro. Un romanzo è un sogno che chiede di essere scritto nello stesso modo in cui ci si innamora di qualcuno, leggiamo nell’inicipit. Al centro di questo sogno si muove la tipica gioventù di Ellis, losangelina, bianca, altoborghese, sessualmente ibrida, sfacciata, incredibilmente matura per quell’età, patentata “A L.A. diventavi adulto la settimana in cui prendevi la patente”, disinteressata alla politica anche se alla Casa Bianca c’è un ex attore, elegante fuori e dentro le uniformi scolastiche stilose alla “I giardini dei Finzi-Contini” della Buckley High School. Ragazzi senza adulti intorno, con genitori assenti perché alcolizzati o in carriera, che fluttuano da un posto all’altro “a me non importava cosa facessero i personaggi. Esistevano, e volevo solo trasmettere uno stato d’animo, immergere il lettore in un’atmosfera particolare creata da dettagli attentamente selezionati”. Prestate attenzione alle ultime cinque righe, contengono il senso di tutto: per almeno due terzi della storia, i protagonisti di Ellis “esistono”, non fanno. Esistere include qualunque gesto, anche il più insignificante narrativamente parlando, ma Ellis quei gesti nel romanzo ce li mette lo stesso, gli servono a riprodurre gli stati d’animo di una generazione, la sua, e la giusta atmosfera di una metropoli beata del proprio successo e terrorizzata dal Pescatore, un serial killer sulla cui identità vi interrogherete dalla prima all’ultima pagina. 

Bret è un adolescente diffidente, turbato fino alla paranoia. La sua alterazione è così vibrante e amplificante nella percezione dei fatti da condizionare perfino il lettore. Come gli altri diciassettenni della combriccola, Bret beve, fa uso di droghe, si impasticca di tranquillanti. È fidanzato con la bellissima Debbie – tutti i protagonisti del romanzo sono alti e belli da fare schifo – figlia di un noto produttore cinematografico, come lui omosessuale.

La storia, puntellata da decine di dischi in classifica, film di successo e noti romanzi di Stephen King e Joan Didion soprattutto, è accompagnata da una tensione crescente che si riversa su due tematiche essenziali. La prima: l’attesa (nelle prime duecento pagine) poi conoscenza (nelle successive cinquecento) di un nuovo compagno di scuola: Robert Mallory (Robert è a mio avviso il personaggio più riuscito del romanzo: folle, bugiardo o leale a seconda dei casi, misterioso, carismatico come lo Svedese di Philip Roth); 2) la sospetta implicazione di Robert nei delitti del serial killer, che non solo uccide ma tortura anche gli animali delle sue vittime. Un altro tema centrale del romanzo è l’omosessualità di Bret, repressa e taciuta con Debbie, vissuta fino allo stremo (talvolta solo fantasticata) con i suoi amici, drammatizzata in un episodio decisivo della storia che ci riporta a Il laureato di Charles Webb. Le schegge è un romanzo tragico e sensuale su una stagione americana che nessuno meglio di Ellis ha saputo raccontare, e su una generazione allucinata e disillusa, perennemente in fuga da se stessa. 

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