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Bulky. Intervista a Raffaella Simoncini

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Bulky è il romanzo di esordio di Raffaella Simoncini edito nel 2022 da Neo edizioni nella collana Iena, e racconta di conflitti e relazioni. Bulky è il nome della malattia, del tumore, contro cui Luce, la protagonista narrante del romanzo, deve lottare. Il romanzo non racconta solo la malattia a partire dal vissuto dell’autrice, narrazione trasfigurata, tra l’altro, in una sorta di allegoria che nulla ha a che spartire con una vittimistica autobiografia, al contrario: le lunghe settimane trascorse in stanza d’ospedale con la discola e preziosa Iole sono descritte con spiazzante ironia, il romanzo mette anche sulla pagina i conflitti generati dalle relazioni umane: la genitorialità, le questioni sentimentali, del cuore, per così dire, sono un tema fondante del libro. Bulky ha una scrittura quasi cinematografica, il carattere dei personaggi, le descrizioni ambientali, i passaggi del tempo, per altro immobile, della malattia, sono elementi che colgono il lettore impreparato perché ci si aspetta autocommiserazione e melenso patetismo nel racconto della propria malattia: invece no. Luce, a differenza della compagna di stanza, Iole, non è arrabbiata con il mondo, anzi lo attraversa nella sua complessità e profonda sofferenza, nonostante tutto, con una leggerezza simile agli origami di carta. Simoncini sa narrare la propria malattia osservandola dall’esterno, la scrittura esce dal corpo autoreferenziale ma resta carne viva, palpabile. Bulky è un esordio riuscito, uno scrivere desiderante che sa comunicare quanto di più impossibile: la sofferenza della malattia e la sfida soggettiva contro la morte che cova dentro il corpo. Bulky, paradossalmente, è un inno alla vita e alla forza che gli altri, se abbiamo molta fortuna, sanno infonderci per trarci fuori dal nostro inferno.

Gianluca Garrapa

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«Siamo questo traslare

cambiare posto e nome.

Siamo un essere qui, perenne navigare

di sostanze da nome a nome. Siamo.»

In esergo le parole di una poetessa, Mariangela Gualtieri, che molto ha lavorato in ambito teatrale e tu sei tra le fondatrici dell’Associazione FonderieArs, che di teatro si occupa: la tua scrittura ha, in qualche modo, subito l’influenza dei tuoi interessi teatrali?

La mia scrittura ha rubato al teatro e alla drammaturgia il principio della parola che si fa azione. A teatro la parola è un tutt’uno con il corpo, il respiro, il movimento, elementi imprescindibili. La narrazione per me deve quindi essere esperienza fisica e tangibile. La parola scritta non deve limitarsi a raccontare o a creare l’ambiente adatto all’immaginazione, ma deve permettere al lettore di toccare con mano il mutare degli eventi, affinché possa muoversi tra le pagine come se fosse egli stesso un personaggio del romanzo.

«I miei occhi si alzano verso il televisore. Un uomo spiega una tecnica giapponese per riparare gli oggetti di ceramica. La mente trova qualcosa di concreto in cui incastrarsi. I giapponesi, invece di buttare vasi e piatti rotti, li riparano riunendo i pezzi con una resina a base di polvere d’oro, pelle bianco latte attraversata da un reticolo di vene dorate.» La tecnica giapponese che descrivi si chiama Kintsugi e, appunto, consiste nel riparare oggetti rotti con l’oro. Mi sembra che il romanzo, nel suo frammentarsi di brevi istanti e capitoletti collegati fra loro in un’armonia di contrappunti, di vuoti e pieni, voglia anche esprimere sia la tensione della protagonista a ricucire lo strappo che la malattia ha portato con sé, ma anche il desiderio di ricostruire legami personali: cosa ci puoi dire a proposito?

Alla fine del romanzo, prima dell’indice, c’è una breve pagina dedicata ai miei ringraziamenti. L’ultima dedica è questa: “a ciò che si rompe, muta e vive ancora”. Posso dire che in questa frase è racchiuso il senso dell’intero romanzo. I contrappunti a cui fai riferimento, i pieni e i vuoti, i momenti di stasi e quelli di azione, che si alternano come onde del mare, raccontano la storia di una frattura. Nel caso della protagonista la frattura è profonda, dolorosa, e per forza di cose richiede un cambiamento altrettanto forte e intenso. Ma nel suo caso il cambiamento non è sinonimo di oblio: Luce vuole che quella frattura, quel dolore, restino ben visibili a lei e agli altri, e desidera rimettere insieme i pezzi di se stessa, in modo tale da assumere una forma nuova, così come accade con gli oggetti riparati con la tecnica del Kintsugi. Perché ciò che vive ancora è solo ciò che muta, e che riesce a variare al variare delle circostanze, fino a tornare all’essenza di sé.

«Delle foglie secche volteggiano nel parcheggio, insieme a cartacce e rami.» Nel tuo romanzo, mi sembra, presti particolare attenzione ai resti, agli scarti e con un punto di vista laterale rispetto alla narrazione, racconti il paesaggio dalle finestre, gesti delle mani, piccoli particolari, foulard, capelli che cadono e restano morti sul pavimento: che lavoro hai fatto per narrare e narrarti da un punto di vista così stupendamente decentrato?

Ho applicato alla scrittura quella che è la mia visione della realtà. Può sembrare banale, ma credo che ciò che vediamo scorrere sullo schermo principale della vita, non racchiuda la realtà tutta. Sono i particolari apparentemente insignificanti quelli che donano un nuovo significato a ciò che ci accade. Gli elementi del quotidiano hanno un ruolo centrale e non avrebbe senso tralasciarli per puntare l’attenzione solo sul macro, un errore che a mio avviso renderebbe la narrazione monocorde. Un microcosmo fatto di capelli che si adagiano su poltrone, carta stagnola che si accartoccia, prosciutto che fuoriesce dai panini, foglie secche che roteano non solo in un piazzale, ma anche dentro noi stessi. E poi rumori, odori, immagini, sensazioni, sapori. Tutto è metafora di ciò che ci portiamo dentro, e concorre a costruire il nostro personale puzzle esistenziale.

««Bella vestaglia, è nuova?» le dico.

«Collezione autunno-inverno di Armando».

«Vorrai dire Armani…»

«No Armando, mio marito».

È la prima volta che la sento chiamarlo per nome.

«Ha sbagliato la lavatrice e la vestaglia da blu è diventata azzurro

polvere» continua.

«Non è poi così male».» Nella tragedia della malattia e della catastrofe dei rapporti umani, la tua scrittura sa, in modo naturale e senza forzature, collocare elementi di umorismo che rendono equilibrata la narrazione: che rapporto hai con la poesia e la comicità?

La poesia è dappertutto. Anche quando si parla di lavaggi sbagliati, come nel dialogo che hai riportato, per parlare in realtà di rapporti umani in evoluzione. Perché la poesia è volgere lo sguardo verso i luoghi in ombra e trarli alla luce.

La comicità e l’ironia sono essenziali. Personalmente non avrei superato momenti disastrosi della mia vita se non fossi stata capace di riderci su. Nelle trame di una tragedia vi sono sempre elementi comici che hanno però una doppia valenza: da un lato alleggerire la tragedia stessa rendendola più accettabile, e da un altro renderla grottesca, stonata, e accentuarne ancor di più i tratti tragici e dolenti. Come in un gioco di specchi e di rimandi, che ci aiutano a osservare ciò che ci accade da punti di vista differenti, comicità e poesia rendono la realtà sfaccettata e multiforme.

«Io torno indietro a un tempo in cui il mio corpo aveva uno spazio da occupare.» Il rapporto che Luce ha con il proprio corpo-tempo è ovviamente mutato dacché la malattia ha invaso il suo corpo. Il romanzo si svolge prevalentemente nello spazio chiuso della stanza di ospedale e il tempo sembra diventato immobile. Tempo, spazio e personaggi: ci racconti come è nato, in pratica, il tuo romanzo? Come hai costruito e montato gli episodi che lo compongono?

Prima di avere completamente chiara la trama, avevo già dei punti fermi. L’inizio e l’epilogo del romanzo in primis, poi la struttura dei piani temporali, infine i conflitti interiori e i difetti tragici dei personaggi. Il tempo e lo spazio in particolare giocano ruoli principali. Il tempo viene plasmato a seconda dello spazio nel quale si trova ad operare; lo spazio a sua volta influenza i comportamenti dei personaggi che si muovono al suo interno. I capitoli che ci raccontano dell’evolversi del rapporto tra Luce e la Cuoca si allungano in tutta la prima parte del romanzo, ma in realtà ricoprono solo 24 ore di una singola giornata scandita dai rigidi orari della routine ospedaliera. Dall’altro lato i capitoli in cui veniamo a conoscenza della vita di Luce prima dell’incontro con la Cuoca, corrono da un’ambientazione all’altra, in un susseguirsi di cambi e accadimenti, in cui il tempo ci appare dinamico e rapido. Il tempo dentro l’ospedale è un tempo ovattato, in cui i pensieri si affollano; il tempo fuori dall’ospedale è invece un tempo affannato, in cui pensare non è concesso. Ma la frattura nella vita della protagonista porta queste due linee temporali a convergere tra loro, come parti di uno stesso oggetto che tornano a ricomporsi. Da questa ricomposizione nasce la seconda parte del romanzo, in cui il tempo diventa lineare, non più ovattato ma nemmeno frenetico, un tempo amico, in cui poter pensare e ricostruire. Questo tempo nuovo dilata anche lo spazio, uno spazio in cui finalmente tutti i personaggi possono confrontarsi con i loro conflitti e difetti, e scegliere se cogliere l’opportunità di attingere ad un nuovo bagaglio di emozioni ed esperienze per poter diventare altro, mutare e continuare a vivere.

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