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Cesare Pavese. Non ci capisco niente. Intervista al curatore Federico Musardo

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Non ci capisco niente è un libro-cartolina, e dunque spedibile, edito nella collana I pacchetti per L’Orma editore. Non ci capisco niente raccoglie parte delle lettere dell’epistolario di Cesare Pavese scritto tra il 1924 e il 1936, nel periodo che vede il sedicenne Pavese mosso dal desiderio di voraci letture dei versi altrui fino all’anno in cui esordisce con la raccolta poetica Lavorare stanca. Federico Musardo ha scelto e introdotto le lettere dell’epistolario pavesiano, mostrandoci il volto burrascoso e timido, allo stesso tempo, la continua lotta tra gioia di vivere e profonda disperazione, lavoro assiduo e introspezione che a volte lasciano il passo a una malinconica apatia. Non ci capisco niente ci fa conoscere, e sentire, quel vasto mondo inedito che è stata l’adolescenza di Cesare Pavese, sempre in bilico tra vita e letteratura, sogno, rabbia, e poesia.

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Come hai scelto le lettere e perché proprio Cesare Pavese?

Prima di proporre il pacchetto era già un po’ di tempo che studiavo e soprattutto leggevo Pavese. L’epistolario è foltissimo e consta di due volumi, uno curato da Lorenzo Mondo e l’altro da Italo Calvino, per un totale di circa milletrecento pagine o giù di lì, se non ricordo male. Testi nati in una dimensione privata e a maggior ragione stupefacenti, anche fosse soltanto per lo stile. Fino a un certo momento della sua vita Pavese ha conservato quasi tutto ciò che scriveva, compresi i brogliacci delle lettere, anche quelle mai inviate – una, a Hemingway, è trascritta anche nel Mestiere di vivere: «Did you ever see Piedmontese hills? They are brown, yellow and dusty, sometimes “green”… You’ld like them». Insomma c’è un mondo. Il fatto che dalla seconda metà degli anni Quaranta in poi abbia scritto perlopiù lettere editoriali, di lavoro, per una prima scrematura senz’altro è stato d’aiuto. Le lettere degli ultimi cinque anni, molto numerose, da una parte sono entusiasmanti per la parabola esistenziale dell’autore, dall’altra per un interesse in un certo senso più specialistico, perché documentano come si lavorava allora in una casa editrice, i tempi di lavoro, l’editing, anche gli aspetti più tecnici come compensi, contratti, accordi, per esempio. Ma una collana come I pacchetti ha un taglio divulgativo ed è pensata per chi – ed è una fortuna che un po’ invidio – attraverso questo libricino potrebbe prendere in mano per la prima volta un suo libro. Ora che lo scrivo sento una responsabilità che non voglio, però, quindi consiglio almeno Paesi tuoi (1941), il romanzo d’esordio, e Il mestiere di vivere (1952), un diario unico.

«[…] un sentimento, quando tu lo provi, è cosa viva» è la lettera del 10 dicembre 1925 a Mario Sturani: che rapporto c’era per Pavese tra la letteratura e l’interiorità dei sentimenti?

Per quanto mi riguarda Pavese sotto sotto è fatto di letteratura, è «l’uomo libro» – così si autodefinisce in una lettera di quegli anni. Ma allo stesso tempo vive, fa cose, vede gente… è sempre la stessa storia, vecchia più del mondo.

«Questo valga a dimostrare che non vivo poi soltanto dei libri e per i libri» scrive Pavese nell’agosto del 1926 a Augusto Monti: raccontaci un po’ com’era la vita del poeta negli anni in cui scrisse l’epistolario.

Citi forse la mia lettera preferita di tutto l’epistolario. Purtroppo (o per fortuna?) non sono Pavese, quindi sulla sua vita posso solo congetturare. Stando alle lettere sono anni di scoperte, di esordi, appunto, come recita il sottotitolo del pacchetto. Pavese è alternativamente un liceale, un adolescente invaghito di una «pischerla», un sognatore romantico e un po’ ingenuo; un aspirante poeta, un giovane uomo che ha sprazzi di una lucidità disarmante e si salva da solo, con la scrittura sua o degli altri; un amico bonario, un compagno scontroso. E molto altro.

«[…] l’arte vuole un tal lungo travaglio e maceramento dello spirito, un tale incessante calvario di tentativi che per lo più falliscono […]» sempre a Augusto Monti, il 18 maggio 1928, l’allievo Pavese (Augusto Monti è stato un suo professore di Liceo) esprime il suo punto di vista sull’arte. In questa lettera Pavese si emancipa dagli insegnamenti del vecchio professore, come scrivi tu nell’introduzione alla lettera: in che modo muta la visione artistica di Cesare Pavese in questi anni?

Pavese appartiene a una generazione diversa rispetto a Monti e si forma in un contesto (letterario, umano, sociale, storico) radicalmente mutato. Di mezzo c’è stata la rivoluzione del Novecento, nuove sensibilità e forme di espressione, un altro orizzonte culturale. Nella fattispecie, senza fare i saggisti della domenica – anche perché è venerdì –, cambia il concetto di scrittura, cambiano i presupposti della narrazione. Questo stralcio di lettera suggerisce una chiave di lettura per il suo percorso letterario e umano – una delle molte possibili, tutte vere finché non si approda a un discorso biografico: l’etica del sacrificio. E quello di Pavese è un «calvario di tentativi» che dovrebbe darci un po’ di fiducia: a leggerle oggi, le prime prove suscitano reazioni contrastanti, alcuni versi sarebbe quasi generoso definirli acerbi. Eppure, e vai di tautologia, Pavese è diventato Pavese anche grazie alla disciplina e alla testardaggine – lettore, poeta, autore di racconti, romanziere, traduttore, saggista, editore, correttore di bozze, tutte variazioni sullo stesso nucleo di base, la scrittura.

«[…] vado in giro pallido e pieno di genio, sogghigno amaramente e sto di casa nel paradiso artificiale,» scrive il 5 settembre 1929 a Tullio Pinelli. Il momento non è dei migliori e questa lettera piena di sconforto lo dimostra. Alti e bassi nella vita di Pavese. Ma il rapporto di amicizia con i destinatari delle sue lettere non cambia poi molto. Chi erano i suoi destinatari, che rapporto li legava?

Sturani, Pinelli e Monti sono i destinatari di una vita, anche se a poco a poco le lettere con loro si diradano. L’artista che scrive, il commediografo di ascendenza etrusca, il vecchio professore al D’Azeglio che oltre all’italiano e al latino insegnava gli ideali di Gramsci e Gobetti, del quale un Pavese appena uscito dal liceo vuole «farsi un amico». E Alberto Carocci, fondatore di riviste e suo primo editore, su cui si chiude il pacchetto.

Poi avrà altri dialoghi scritti, rapporti saldi (Giulio Einaudi, i critici di fiducia, Fernanda Pivano, Ernesto De Martino, per ricordarne giusto alcuni) o scambi estemporanei – molto emozionante e indicativo di un certo cambiamento della sensibilità letteraria il rifiuto quasi paternalistico di alcune poesie di un giovanissimo Edoardo Sanguineti, espresso per lettera da un Pavese ormai perno di casa Einaudi; l’epistolario è pieno di boutades, rimbrotti, sarcasmi, non expedit editoriali acutamente creativi. Faccio un esempio perché è meglio leggere Pavese che un curatore. Scrive a un tale che aveva proposto un manoscritto – cito a memoria: «non possiamo impegnarci a leggere un romanzo bellissimo, insuperabile ed interessantissimo, nei nostri autori ci piace soprattutto la modestia». E si potrebbe continuare per parecchie pagine.

«come vedi, mi hai attaccato la mania di persecuzione. Però, che bellezza! Mi è capitato come a Dante Alighieri, Omero ed altri sommi,» scrive nella lettera del 15 dicembre 1935 a Mario Sturani durante il confino a Brancaleone Calabro dopo essere stato arrestato con l’accusa di antifascismo: che visione aveva Pavese del suo presente politico e quali sono stati i sommi maestri del passato che lo hanno più ispirato?

A differenza di qualche marxista troppo ortodosso, Pavese era abbastanza intelligente da capire che la letteratura non è la politica. Così, per dire, scrive in una lettera a Ernesto De Martino, insieme a cui curava per Einaudi la collana viola: «che l’Eliade [Mircea, poi effettivamente pubblicato] abbia fama di nazista fuggiasco non ci deve spaventare». E alcuni ancora oggi considerano Eliade un pensatore molto “di destra”. Sempre a proposito di etnografia e storia delle religioni, una polemica educata e fertile ci fu tra lo scrittore e Franco Fortini. Pavese ha militato a modo suo, intellettualmente, di certo non possiamo definirlo un uomo d’azione. Questo vale da tutti i punti di vista: sia per Ritorno all’uomo, l’articolo che scrisse su «L’Unità» all’indomani della Liberazione, sia per Il compagno (1947), giudicato dai critici il suo romanzo più impegnato, sia per le riflessioni più ambigue e controverse. Secondo me anche quello che oggi chiamiamo un po’ impropriamente “taccuino segreto”, cioè alcuni appunti in cui Pavese critica i partigiani e ammicca alla dittatura nazifascista, andrebbe interpretato soprattutto come un esercizio di astrazione, quindi da una prospettiva intellettuale. Questo della politica e del rapporto con il suo tempo, però, è un discorso che mi interessa meno degli altri.

I maestri sono tanti: su tutti, per ragioni diverse, mi vengono in mente Shakespeare e Whitman. Pavese era un lettore onnivoro, e nella sua biblioteca è conservata una quantità inverosimile di libri fittamente postillati, dall’adolescenza agli ultimi anni. Leopardi, per esempio.

«Lacrime, tripudio, auspici, bicchierata: tutto da solo»: nella lettera, l’ultima, del 24 gennaio 1936, indirizzata a Alberto Carocci, racconta la gioia dopo aver ricevuto il pacco di Lavorare stanca. Vediamo un Pavese allegro, certo, ma nostalgico e «inetto alla pubblicità»: come funzionava la promozione dei libri a quei tempi?

Per rispondere bene a questa domanda servirebbe uno storico dell’editoria, o un esperto di media (oppure entrambi). La promozione di un libro, almeno prima del miracolo economico e di tutto quello che sappiamo, era diversissima rispetto a oggi. Ma così scopro l’acqua calda. Prima di tutto, per coerenza, vorrei ricordare la divertente fascetta dell’edizione Einaudi di Lavorare stanca (1943), scritta dallo stesso Pavese, a detta sua «una delle voci più isolate della poesia contemporanea» – la prima edizione, effettivamente, era quasi passata sotto silenzio. Peccato per Pavese, perché dal 1947 l’ufficio stampa di Einaudi sarebbe stato un giovanotto di nome Calvino. «Il mio sistema di vendita è garantire una vendita minima mediante prenotazione. I libri che reggono questa prova possono andare anche al pubblico. Se io anticipo la somma totale dei libri che stampo, senza più curarmene fino al termine dell’anno, quando i librai mi danno, o non mi danno, i conti, dopo tre mesi non posso più stampare i libri». Così scrive Gobetti a un giovane Montale per il suo Ossi di seppia, una decina d’anni prima di Lavorare stanca. Molti aspiranti scrittori i libri dovevano addirittura stamparseli da soli – il tanto deprecato self publishing di oggi allora forse aveva un altro significato, e chissà che tra una quantità pressoché infinita di fogli estravaganti non ci stiamo perdendo un Palazzeschi – il suo Incendiario, per intercessione di Marinetti, esce rigorosamente a pagamento. Ma questa intervista sta diventando troppo lunga! Ti saluto con un manifesto pubblicitario del 1931, ritrovato abbastanza di recente da Gianni Celati: «Questo autore ignoto che vi si presenta è quasi certamente un imbecille. Però voi non ne siete sicuri. Prendetevi la soddisfazione di dar dell’imbecille a uno sconosciuto, coi documenti alla mano. Acquistate le mie pubblicazioni!». È Antonio Delfini.

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