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Chinelo Okparanta anteprima. Sotto gli alberi di Udala

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Da oggi è nelle librerie il nuovo romanzo di Chinelo Okparanta, Sotto gli alberi di Udala, edizioni e/o, pp. 336 , € 18,00.

Okparanta regala un romanzo avvincente sulla maturazione di una giovane donna gay in Nigeria durante la guerra civile nigeriana che ha riguardato il Biafra.

Chinelo Okparanta, è nata a Port Harcourt, in Nigeria, e si è trasferita negli Stati Uniti all’età di dieci anni. Si è laureata alla Pennsylvania State University, ha conseguito un master alla Rutgers University e un master all’Università dell’Iowa. È stata una delle sei New Voices di Granta per il 2012, ha scritto La felicità è come l’acqua (Racconti Edizioni) e attualmente è professore associato di inglese e scrittura creativa alla Bucknell University, a Lewisburg.

Nel nuovo romanzo di Chinelo Okparanta, Sotto gli alberi di Udala, un incontro casuale tra Ijeoma, una cristiana Igbo, e Amina, una musulmana Hausa, dà inizio a un’amicizia che si trasforma rapidamente in passione.

Nel romanzo coesistono la storia d’amore e quella di guerra, ognuna delle quali minaccia di eclissare l’altra. Sotto gli alberi di Udala offre uno studio delicato delle forze contrastanti che influenzano Ijeoma: la sua identità gay, la sconfitta del Biafra indipendente, il tabù delle relazioni tra Igbo e Hausa e la retrocessione sociale di Ijeoma.

In Nigeria le relazioni tra persone dello stesso sesso sono tuttora un reato punibile fino a 14 anni di carcere o con la morte per lapidazione negli Stati del Nord. Okparanta spera che il suo romanzo dia ai cittadini nigeriani emarginati del L.G.B.T.Q. una voce più potente e un posto nella storia della sua nazione.

Questo sentimento si ritrova nel letto di Ijeoma e Ndidi, che dice di conoscere una città dove “l’amore può essere amore”. Una notte mormora che è Aba. La notte successiva è Umuahia. Ogni notte che passa nomina città diverse: Ojoto e Nnewi, Onitsha e Nsukka, Port Harcourt e Lagos, Uyo e Oba, Kaduna e Sokoto. Fa nomi e nomi, così che alla fine devo ridere e dire, «Com’è possibile che questa città possa essere così tanti posti contemporaneamente?». «Sono tutte qui in Nigeria. Vedi, questo posto sarà tutta la Nigeria».

Sotto gli alberi di Udala è insieme la voce di una donna, il racconto di un Paese e la storia di un amore.

Carlo Tortarolo

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Era questo il ciclo normale delle cose: la stagione delle piogge seguita dalla stagione arida, e l’harmattan che si mescolava alla stagione arida. Nel frattempo, le capre belavano. I cani abbaiavano. Galline e galli trotterellavano su e giù per le strade, rimanendo vicini ai recinti a cui appartenevano. Farfalle a coda di rondine e monarche, farfalle erba gialla comuni e rosse – farfalle di tutti i tipi – svolazzavano serenamente da un fiore all’altro.

Quanto a noi, ci muovevamo con quella rilassatezza delle farfalle, come se la brezza fosse dolce, come se il sole sulla nostra pelle fosse una carezza. Come se passi lenti permettessero di assaporare entrambi. Così andavano le cose prima della guerra: le nostre vite procedevano in avanti con dolcezza.

Era il 1967 quando la guerra fece irruzione e si insediò dappertutto. Nel 1968 l’intera Ojoto iniziò a pulsare con il putiferio di auto blindate e carri armati, bombardieri e i loro motori rumorosi che inviavano onde d’urto dentro le nostre orecchie.

Nel 1968 i nostri uomini iniziarono a portare fucili appesi alle spalle e asce e machete, con le lame che splendevano al sole, e per le strade, ogni ora o due del pomeriggio e della sera, si sentivano i loro canti, voci fragorose che uscivano come libagioni dalle loro bocche, «Biafra, vinci la guerra!».

Quel secondo anno di guerra – il 1968 – mia madre mi mandò via di casa.

Arrivati a quel punto tutti i discorsi sui festeggiamenti che ci sarebbero stati quando il Biafra avesse sconfitto la Nigeria avevano iniziato a scemare, soppiantati piuttosto da una preoccupazione collettiva su cosa ne sarebbe stato di noi quando la Nigeria avesse avuto la meglio: Saremmo stati privati delle nostre case e delle nostre terre? Saremmo stati costretti a diventare umili schiavi? A vivere di cibo razionato? Per quanto tempo avremmo dovuto sopportare il peso della nostra perdita?

Ci saremmo ripresi?

Tutte queste domande perché nel 1968 la Nigeria stava già vincendo, e tutto era già cambiato.

Ma erano previsti altri cambiamenti.

Non c’è modo di raccontare la storia di cosa è successo con Amina senza prima raccontare la storia di quando mamma mi ha mandata via di casa. Così come non c’è modo di raccontare la storia di quando mamma mi ha mandata via di casa senza raccontare del rifiuto di papà di andare nel rifugio. Senza quel rifiuto non sarei mai stata mandata via di casa, e se non fossi mai stata mandata via di casa, allora forse non avrei mai incontrato Amina.

Se non avessi incontrato Amina, chissà, potrebbe non esserci nessuna storia da raccontare.

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