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Cristina Alziati. Quarantanove poesie ed altri disturbi

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Dopo un intervallo di silenzio durato ben undici anni, con Quarantanove poesie ed altri disturbi , Cristina Alziati torna a far sentire la sua voce poetica con parole che scricchiano come la neve gelata contro i vetri , energiche, capaci di combinare densità di pensiero ed impegno ermeneutico, attente al valore semantico. Nuovi versi, dall’ andamento metrico modulato sul ritmo di un respiro turbato e consapevole di dover trovare un punto di equilibrio in questo tempo stranito. È un’opera che va letta lentamente, senza fretta, per poter riflettere sulla sua solidità, per poter entrare nei depositi della memoria sedimentati tra rovi, nuvoli e germogli, per poter toccare con l’immaginazione ombre e fogliame, osservare e stupirsi di fronte ai continui cambi di luce e di colori di una solida scrittura. La sua voce ci giunge come un’eco dal fondo di una valle o dalle stanze stupefatte dell’infanzia, o da quelle dove la penna trova la sua ispirazione: Da diciassette mesi abito/ solo le grandi, semivuote stanze/ o qualche metro quadrato di campagna/ seduta al tavolino, dentro un assedio/ di glicine, papaveri, altee/ rosa canina. Alle spalle il sentiero/ da cui mai è arrivato qualcuno.// Sopra la testa si inarcano/ gli steli della rosa/ lambiscono la sedia, il tavolino./ Le mie carte non temono le spine .

Il suo accenno sul ritorno alla scrittura si annuncia ad apertura della raccolta, in Risposta ad Alberto Bertoni: “Come farai –domandavi una volta -/a scrivere ancora/ dopo l’ultimo tuo libro di versi/come farai adesso?” Infatti non scrivo./ Ripeto soltanto che il dolore/ è reale e passato./La storia è ciò che ho raccontato/ di poco peggiore il presente/ e non ne voglio dire. La stessa citazione, o quasi, viene ripresa in: (smorzando), versi nati (come la stessa autrice specifica in una nota ) da una comunicazione con Massimo Raffaeli, occorsa proprio a proposito di quell’incipit. La distanza dalla raccolta precedente , Come non piangenti, sembra dunque configurarsi come una riflessione lunga e dolorosa sui mali che attanagliano il mondo, la nostra storia, il nostro presente in cui si riaprono continuamente vecchie ferite. Da qui l’urgenza che muove questi versi visionari, che affiorano da bianchi silenzi di neve: Svegliatevi, parlate, ho gridato/ ai miei cari, dove sono le erbe/ che stavano crescendo nella gronda/ i fiumi che srotola il vento dai camini/ la nuvola che i secoli/ percorre a volo ogni mattina? Quarantanove poesie, (titolo che mi ricorda i 49 racconti di Hemingway) a cui si aggiungono altri disturbi, stati d’animo generati dal disordine del nostro mondo, dalla sua caoticità, dal disorientamento che pervade le nostre esistenze, profondamente connesse ai cicli di una natura talvolta esuberante, talvolta spettrale, violata. Diversi fili concorrono alla formazione della solida intelaiatura del libro: l’intimo colloquio con la figlia Sofia, a cui è dedicata la raccolta e che si configura come la protagonista della sezione Exclave (Saliamo io e Sofia sul Monte Stivo/ fra abeti rossi e larici./ Lei mi racconta che l’inverno, ormai/ non riesce a sterminarlo, il bostrico/ il minuscolo bostrico che gli alberi devasta/ da sotto la corteccia [...]), il dialogo con una stirpe prossima all’autosterminio e con il paesaggio domestico, l’ininterrotta conversazione con i suoi interlocutori preferiti, i suoi maestri, gli amici di sempre e quelli che non ci sono più. Da esperta traduttrice dal tedesco, (fra l’altro di Hans di Robert Jauss, «Le questioni di Giobbe e la loro replica a distanza», in «L’ospite ingrato», I, Quodlibet 2008), ha appreso la lezione di coloro che sente prossimi, cioè Hölderlin, Paul Celan, Bertolt Brecht. I versi risuonano come un’eco che s’infrange sul crinale di un alto monte, da un tempo sospeso come una stella; la voce racconta la storia recente che ha visto biblioteche bombardate, fabbriche incenerite, mentre i suoi occhi si perdono nel volto della Madonna bambina del Pontormo, (nella tavola della Deposizione), nell’ attesa inerme di una trafittura minima del cuore. I versi di Cristina Alziati, sono capaci di attraversare – scrisse in proposito Fabio Pusterla – la soggettività individuale affilata da un’esperienza terribile (quella della sua malattia) e aprirsi ad uno sguardo sugli altri, sui sofferenti, sui minacciati, sui negati.

Colpisce la diversa natura dei testi contenuti nelle sette sezioni di cui si compone la raccolta: sono schegge, frammenti in attesa di congiungersi in una melodia compositiva grazie alla voce melanconica ed aspra di un violoncello che suona Il libro dei falchi (musica per strumento), dove lo spiraliforme volo del rapace (turning and turning in widening gyre… canta Yeats in “The second Coming”) s’immobilizza nelle geometriche stilizzazioni dell’iconografia araldica. Il volo sembra essere uno degli elementi connettivi ([…] ritorna il falco dei miei versi /immobile nel vento il volo […]) del suo paesaggio, così elegante e melanconico. Rientrano nel campo visivo del lettore l’incantevole, piccolo ma profondo lago dell’Accesa, nella Maremma grossetana, con la sua leggenda immersa nell’acqua cristallina; il monte Stivo, con i suoi abeti rossi e larici , ma anche immagini di una natura morta (La grande acacia è mangiata/un fungo ne ha corroso il midollo […]// Al suolo marciscono cortecce e certo la radice, sotto terra. […]) che sembra richiamare il giardino sofferente dello Zibaldone leopardiano. Chiude la raccolta l’alzarsi in volo di un airone cinerino, uccello che lascia filtrare dalle ali bagliori di luce, quelli di una lingua poetica capace di assorbire ogni rugosità, ovattarla in un manto nevoso. Le originali costruzioni sintattiche tratteggiano e sottolineano con incisività e maestria il contrarsi di un impulso, di un sentimento di rifiuto, un disturbo, una nota dissonante che si leva infine come un grido ( […] ora cade disfatta la neve /sopra il piccolo lago alpino[…] ora brilla/ nell’occhio della carpa /l’isotopo più radioattivo, di plutonio/quello di Fukushima ..). E mentre dura una guerra ai confini, dal silenzio di un altrove ci giungono parole necessarie, come ultime parole di un salmo: […] E mai nessuno studierà /una stirpe/fecondamente intenta / a sterminarsi. Dal disturbo, tuttavia, può partire un cammino salvifico che non conduce alla redenzione ma ad una rilettura possibile del caos e della dissoluzione contemporanei.

Rossella Nicolò

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Cristina Alziati

Quarantanove poesie ed altri disturbi 

Marcos’y Marcos, 2023 

91 pagine, 18 euro 

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